Guardando indietro ai bei giorni della mia gioventú, una delle cose di cui sono grato é di essere cresciuto in un periodo in cui personal computer e telefoni cellulari (soprattutto quelli dotati di apparecchi fotografici e telecamere…) non erano stati ancora inventati.
Da ragazzo, quello che volevo fare piú di ogni altra cosa era uscire con gli amici, girovagare per la cittá ed esplorare gli angoli nascosti della Napoli collinare. Insomma, vivere una vita ancora tridimensionale, basata su rapporti sociali con persone vere, in carne ed ossa piuttosto che intermediati da Facebook, Twitter o dalla posta elettronica.
Un'altra attivitá costante della mia prima adolescenza é stato il calcio, praticato assiduamente e segretamente ad ogni occasione nel cortile del condominio nel quale sono cresciuto a dispetto del fatto che costituisse un'attivitá "SEVERAMENTE VIETATA" da quelle stesse regole condominiali applicate con feroce zelo dal custode.
Ma proprio questo aspetto clandestino delle nostre partite praticate negli angoli piú reconditi del cortile, senza porte, senza regole e spesso senza neanche una palla vera e propria, ne costituiva anche l'ebrezza; l'esaltazione febbrile di chi é costretto a giocare con un occhio al cross in arrivo dall'ala e con un altro alle improvvise incursioni punitive del custode.
In un certo senso, la dedizione con la quale eravamo pronti a superare tutte queste difficoltá logistiche era la prova concreta della nostra appassionata determinazione e della nostra insaziabile voglia di giocare.
Proprio per questo motivo, quando i miei figli hanno iniziato a giocare al calcio qui in America, prima in California e poi a New York, quello che mi ha colpito piú di ogni altra cosa rispetto alla mia situazione giovanile é stata, naturalmente, l'incomparabile disponibilitá di impianti sportivi, attrezzature per gli allenamenti, uniformi coordinate con tanto di emblema della squadra, zaini personalizzati, scarpini regolamentari, palloni veri e… addirittura parastinchi!
Ma in aggiunta a tutta questa attrezzatura e ai campi in erba perfettamente tenuti, la cosa piú sorprendente é stata certamente l'organizzazione. Allenatori e assistenti; arbitri e guardalinee; precisi calendari di gioco; allenamenti; tornei; campionati e, cosa assolutamente inedita per me, la folta presenza di genitori a costituire la tifoseria delle squadre ad ogni partita.
Il massimo del coinvolgimento dei miei genitori nelle mie avventure calcistiche si limitava alle sfuriate di mia madre ogni volta che tornavo a casa con un ginocchio o un gomito sanguinanti dopo essere stati opportunamente grattugiati sull'asfalto metropolitano e con un nuovo strappo nei pantaloni.
Ma c'é un'altra sostanziale differenza tra il calcio povero e improvvisato che giocavo io da piccolo e quello super-strutturato praticato dai miei figli: le nostre partite erano esclusivamente "nostre", organizzate spontaneamente da noi ragazzi ogni qualvolta se ne presentasse l'occasione senza ingerenze adulte di alcun genere (a parte le battaglie col custode…) e, come tale, erano considerate per ció che erano: un gioco.
Per i miei figli invece, a dispetto di uniformi, zaini e parastinchi, la partita di calcio, relegata nel week-end, é diventata ben presto un altro dei tanti obblighi del loro fittissimo calendario settimanale. Un impegno che, durante la "stagione" dei tornei, li costringe ad alzarsi all'alba anche di sabato o di domenica, ad essere scortati in auto dai genitori in qualche lontano campo cittadino e che deve essere preparato con rigidi allenamenti infra-settimanali che spesso si sovrappongono ai compiti della scuola.
In altre parole, non un gioco ma un'altra "seccatura".
Si, certo, gli allenamenti sotto la pioggia e i risvegli all'alba sono il prezzo da pagare se si vuole eccellere nel calcio, cosí come in tutti gli altri sport e la capacitá di affrontare questi sacrifici é il criterio che seleziona i potenziali campioni; quelli la cui "passione" é piú forte di ogni altro impedimento. Ma la triste conseguenza é che, per la maggior parte di coloro destinati a non diventare campioni, la trasformazione del "gioco" in "impegno" si traduce anche in una perdita di interesse per questo bellissimo sport. Ecco perché, per me la domenica significa ancora l'appuntamento con la partita della mia squadra del cuore, un'occasione che mi piacerebbe condividere con i miei figli che invece preferiscono passare il loro esiguo tempo libero di fronte allo schermo di un computer.