Alle 12:30 di venerdì 22 novembre 1963 nella Dealey Plaza di Dallas, una piccola pioggia di proiettili calibro 6.5 mm. colpì la Lincoln Continental del 1961 che trasportava il presidente degli Stati Uniti d’America. La sua attività cardiaca cessò al Parkland Memorial Hospital appena 30 minuti dopo l’attentato, lasciando un’intera nazione nello sconforto e aprendo la pagina di uno dei più oscuri misteri della storia che nemmeno i più fantasiosi John le Carré, Frederick Forsyth o Graham Greene avrebbero saputo escogitare.
Ma a 57 anni dalla sua uccisione, ci interessa ricordare il 35° presidente americano in un discorso storico che espose circa un anno prima della sua morte in quello stesso Texas che poi avrebbe dovuto abbandonare a bordo dell’Air Force One in una bara di bronzo.
Era il 12 settembre 1962 quando John Fitzgerald Kennedy, alla lectio magistralis tenuta nello stadio della Rice University, annunciava la volontà di spingere la ricerca spaziale americana sulla traiettoria lunare e il suo impegno di far sbarcare al più presto equipaggi umani, ovviamente americani sul satellite naturale, per farli tornare sani e salvi sulla Terra.
«We choose to go to the moon», ripetè tre volte il capo della Casa Bianca, con tutta l’emozione del caso, a un pubblico di studenti che non volevano più aspettare il completamento di quella new deal partita da Franklin Delano Roosevelt e di cui lo stesso Kennedy si stava facendo garante.
«Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese; non perché sono semplici, ma perché sono ardite, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità».
Fu il pezzo centrale di uno speech entrato come caposaldo nella storia mondiale dello spazio. Non frutto della cultura di un politico, diciamocelo, per quanto Kennedy fosse un comunicatore straordinario. Infatti il discorso alla Rise era stato confezionato dal suo speechwriter Ted Sorensen, un giovane avvocato del Nebraska che sarebbe stato autore anche di tanti discorsi del fratello Bob. Lo scopo era chiaro: persuadere il popolo americano a sostenere un programma costoso quanto assolutamente incerto. Ma in quella fine della torrida estate di Houston era il presidente a parlare. E l’uomo più potente del mondo occidentale lanciava la sua sfida, con un pathos equilibrato e una forte incisività.

Non era la prima volta che Kennedy parlava pubblicamente del suo progetto lunare: a quattro mesi dall’Inauguration Day, il 25 maggio 1961 “Jack” si presentò al Congresso con la sua idea rivoluzionaria. Portare un astronauta americano sulla Luna entro la fine del decennio non avrebbe avuto le valenze scientifiche pari alla spesa in sé, ma furono in molti gli imprenditori che intuirono come quel progetto avrebbe potuto essere un grande affare per loro. Primi tra tutti gli industriali della manifattura aeronautica, della radiotelefonia e del calcolo elettronico che aprivano prontamente divisioni per le quote ultra-atmosferiche, poi i produttori di propellente e un indotto colossale che ci pare pure superfluo elencare. Ma a intravedere un business molto consistente furono anche gli agenti immobiliari e gli imprenditori di quello che sarebbe stato il movimento dei tecnici e del turismo che segnava in un modo o nell’altro le attività spaziali a Cape Canaveral e da tutti i siti da cui operare.
Sul piano della geopolitica gli Stati Uniti, dopo il successo della missione Apollo, hanno rappresentato a lungo l’esempio di un Paese dalla tecnologia più avanzata del pianeta.
È stato scritto tutto e di tutto su cosa abbia rappresentato la passeggiata di una dozzina di persone sul pianetino che accompagna la Terra da tempo immemorabile e come saranno diverse le prossime missioni, perché gli Stati Uniti –salvo ripensamenti di Joe Biden e della futura amministrazione della Nasa- hanno aperto alla collaborazione commerciale e industriale con altre nazioni amiche in tutti i continenti; in Europa il primo partner è l’Italia.
La storia non ha ancora dato una risposta univoca al significato di una spesa assai alta per portare a Terra qualche sacchetto di sassi lunari. Qualcuno continua a sostenere che la decisione di Kennedy fu un azzardo senza precedenti perché al momento del varo del progetto Apollo la Nasa non vantava successi soddisfacenti; le navicelle del programma Vostok avevano già valicato più volte le Colonne d’Ercole dell’atmosfera con equipaggi umani quando John Glenn, il primo astronauta americano fece il suo giro attorno alla Terra.
Il proposito dunque era chiaro: gli Stati Uniti non potevano restare indietro all’Unione Sovietica nella progettazione di materiale spaziale e gli americani dovevano essere i primi esseri umani a poggiare i loro scarponi sul nostro satellite.
Quello che ci sembra interessante ricordare è cosa abbia comunque comportato la promessa di John Kennedy al mondo intero e non solo alla nazione che aveva adottato lui e la sua famiglia irlandese.
L’Italia agli inizi degli anni Sessanta aveva ancora una forte componente rurale. La Fiat guidata da Vittorio Valletta, l’Eni capitanata da Enrico Mattei e il piano del sistema elettrico nazionale voluto da Amintore Fanfani stavano faticosamente trasformando l’assetto sociale, oltre che economico per la realizzazione di un Paese industrializzato e con la volontà di crescere. E tuttavia, in diverse sacche di innegabile arretratezza, come in una delle tante contraddizioni che sono un po’ lo stereotipo del Bel Paese, in molte delle sue università si allevava una classe di studenti in grado di partecipare alla corsa spaziale, a quei tempi dominio essenzialmente delle due uniche superpotenze mondiali, allineandosi agli standard internazionali e alla ricerca più avanzata.

Gli Stati Uniti seppero cogliere l’occasione del contributo scientifico proposto dall’Università di Roma La Sapienza e del gruppo di lavoro diretto da Luigi Broglio, che aveva ideato la sonda San Marco per lo studio termo-fisico dell’ambiente tra i 200 e gli 850 km di quota, la regione di transito della future navi spaziali. E così, con i lanciatori Scout offerti dall’US Air Force e due piattaforme petrolifere adattate a base di lancio, ancorate al largo della costa di Malindi (Kenya), si aprì una collaborazione tra Italia e Stati Uniti siglata il 7 settembre 1962 da Lyndon Johnson e dal ministro degli esteri italiano Attilio Piccioni alla Farnesina, sede della diplomazia italiana.
Johnson era ancora il vice presidente degli Stati Uniti. Il numero due di John Kennedy e la più importante delle varie deleghe presidenziali che aveva ricevuto era proprio per la politica spaziale.
Quella firma, è ormai parere di tutti gli esperti, segnò l’inizio di un percorso nuovo che l’Italia avrebbe intrapreso, diversamente da Francia e Gran Bretagna, se non altro perché il San Marco era del tutto lontano dalle finalità di aggressione militare, tema delle proposte delle due nazioni europee.
In quel momento del resto, la principale competenza tecnologica italiana in campo spaziale si era concentrata nel Centro Ricerche Aerospaziali dell’Università di Roma, fondato dallo stesso Broglio, che nel suo programma intendeva preparare una schiera di studiosi e tecnici in tutti i campi della filiera spaziale, per permettere alla comunità scientifica e industriale di partecipare efficacemente ai piani delle nascenti organizzazioni spaziali europee, sia in termini di know-how tecnologico che di ritorno economico. Inoltre –come ha raccontato il suo più stretto collaboratore Carlo Buongiorno in una lunga biografia- nel Centro lavorava la maggioranza dei professori ordinari ed incaricati, assistenti e liberi docenti, una forza di gran peso impegnata alla formazione e alla ricerca teorica e sperimentale, in buona parte costruita attraverso i contratti con gli Stati Uniti.
È passato molto tempo. Lo spazio resta sempre la visione di conquista ma al voler mostrare a tutti i costi i muscoli della capacità tecnologica si è sostituita la necessità di poter sfruttare risorse e opportunità da un ambiente ancora troppo poco inesplorato. Oggi alla sfida tecnologica si sta sostituendo un piano di sviluppo della space economy, con il proposito di utilizzare universalmente tutto quanto realizzato fino ad ora per lo spazio. Per ottenere i risultati sperati è necessario vedere buona parte del mondo riunito in una collaborazione scientifica e industriale. Ma prima di tutto politica.
La strada per raggiungere questi obiettivi è molto costosa e serve infatti sempre più una coesione per evitare sprechi e duplicazioni ma soprattutto per accelerarne il successo.
Deve essere questa l’eredità del discorso che fece John Kennedy in quella giornata spesa alla più importante università del Lone Star State.