Uno dei quesiti a cui gli oncologi si sono trovati a dover rispondere in questi mesi è se, in caso di ospedalizzazione da COVID-19, i pazienti oncologici in trattamento con le diverse terapie antitumorali rischino di subire maggiormente le conseguenze gravi della malattia rispetto a soggetti non oncologici.
La preoccupazione nasce dal fatto che alcuni trattamenti, quali la chemioterapia, possono diminuire le difese immunitarie del paziente, ponendolo di fronte ad un elevato rischio di contrarre infezioni di vario tipo. Secondo uno studio effettuato presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center in New York City e pubblicato su Nature Medicine, la maggior parte dei pazienti in cura con trattamenti antitumorali ed affetti da COVID-19 non versano in condizioni peggiori degli altri pazienti COVID-19. Tuttavia, quando il trattamento antitumorale in uso è rappresentato da farmaci immunoterapici chiamati “checkpoint inhibitors”, l’esito della patologia COVID-19 sembra peggiore con un maggior rischio di ospedalizzazione.
Per lo studio sono stati esaminati i dati di 423 pazienti oncologici affetti da COVID-19 nel periodo tra il 10 marzo ed il 7 aprile 2020. Di questi, il 40% sono stati ricoverati: il 20% dei ricoverati ha sviluppato una malattia respiratoria acuta, circa il 9% è stato sottoposto a ventilazione meccanica, ed il 12% è deceduto.
Circa i 3/4 dei pazienti presentava tumori solidi, di cui il più diffuso era il tumore della mammella seguito, rispettivamente, dal linfoma, dai tumori del colon, del polmone, dalla leucemia, dal tumore della prostata e dal mieloma. La maggior parte dei pazienti aveva più di 60 anni di età o altre condizioni preesistenti, quali diabete o malattie cardiovascolari: queste condizioni, come è noto, sono strettamente correlate alla gravità e all’esito dell’infezione da SARS-CoV-2.
I ricercatori hanno osservato che i pazienti in trattamento con immunoterapici checkpoint inhibitors sviluppavano una patologia più grave che richiedeva il ricovero, mentre il trattamento di pazienti oncologici con chemioterapici o con procedura chirurgica non contribuiva ad un peggioramento dell’esito della patologia COVID-19. Anzi, soggetti in cura per la leucemia in cui il sistema immunitario era stato annientato per poter trapiantare midollo osseo o cellule staminali, non hanno mostrato sintomi da COVID-19.

Questo in realtà non dovrebbe sorprenderci, in quanto la maggior parte delle complicazioni osservate in soggetti affetti da COVID-19 sembra dovuta ad una eccessiva risposta immunitaria al virus. Al contrario, gli immunoterapici checkpoint inhibitors funzionano liberando il sistema immunitario e favorendo l’attacco del tumore e, dunque, i pazienti che seguono questo metodo di trattamento possono sviluppare una reazione più violenta al virus SARS-CoV-2. Questo spiegherebbe il tasso più elevato di complicazioni osservate in pazienti con COVID-19 trattati con questa categoria di immunoterapici.
Gli autori dello studio sottolineano che molte altre ricerche sono necessarie per poter stabilire una correlazione precisa tra COVID-19 e cancro: in particolare lo studio trova alcune limitazioni nell’aver considerato pazienti di una sola struttura ospedaliera, in cui è stato utilizzato un protocollo di trattamento anti-COVID che può essere differente in altre strutture ospedaliere e che il test è stato effettuato solo su pazienti COVID-19 sintomatici. Ma il messaggio importante che i ricercatori trasmettono ai pazienti è che i dati relativi alla relazione terapie antitumorali e gli esiti dell’infezione da SARS-CoV-2 sono incoraggianti e, seppur restando vigili, i pazienti non dovrebbero interrompere o posporre le terapie antitumorali (inclusi gli immunoterapici checkpoint inhibitors), a meno che ci siano altri fattori per cui il medico ritenga necessaria l’interruzione.