“Il più grande passo che l’America abbia mai compiuto nella lotta contro i cambiamenti climatici”, con queste parole lunedì 3 agosto il presidente americano Barack Obama ha annunciato il Clean Power Plan, un piano di regolamentazioni elaborate dalla presidenza insieme all’Environmental Protection Agency (EPA), che stabilisce standard di emissioni per le centrali energetiche americane, con l’obiettivo di farle arrivare al 2030 con livelli di emissioni di anidride carbonica ridotti del 32 per cento rispetto ai livelli del 2005. Tagli che farebbero scendere le emissioni complessive degli Stati Uniti di circa 6 punti percentuali entro il 2030, dal momento che le centrali energetiche da sole sono responsabili di un terzo delle emissioni americane di gas serra.
Da tempo negli Stati Uniti, che sono secondi solo alla Cina per quantità di gas serra emessi, si parla della necessità di fissare degli standard per limitare la quantità di inquinanti che le centrali possono emettere, ma è la prima volta nella storia che vengono fissati dei limiti. “Non ci sono mai stati limiti federali alla quantità di anidride carbonica che le centrali energetiche possono immettere nell’aria. Pensateci. Limitiamo la quantià di sostanze chimiche come il mercurio, acido solforico e arsenico che immettiamo nell’aria o nell’acqua. E stiamo meglio per questo. Ma le centrali energetiche esistenti possono ancora immettere quantità illimitate di dannosi inquinanti nell’aria” ha detto Obama nel presentare il piano, ribadendo che questa situazione deve cambiare.

Fonte: EPA
Il piano si inserisce in un più ampio programma che mira a limitare le emissioni americane di gas serra attraverso diverse azioni: prevede la crescita delle fonti rinnovabili (più 30% entro il 2030, anche attraverso il Clean Energy Incentive Program), fissa degli standard di efficienza per i veicoli (mediamente 54.5 miglia per gallone di benzina), stabilisce misure per l’efficientamento energetico anche a livello domestico, offre incentivi per pratiche sostenibili in agricoltura.
All’obiettivo del 32 per cento gli USA arriveranno combinando gli obiettivi individuali fissati dall’EPA per ogni singolo stato: il piano prevede che gli Stati mettano a punto piani specifici per raggiungere gli standard richiesti, studiati su misura in base al proprio specifico mix energetico e alla propria economia. Gli Stati avranno tempo fino al 2022 per adeguarsi, ma dovranno presentare i propri piani entro il 2018. Il ricorso al carbone, da qualche anno già largamente sostituito dal gas naturale, dovrà essere drasticamente ridotto, dovrà crescere la produzione di energia da fonti rinnovabili, mentre è previsto che il nucleare rimanga ai livelli attuali.
Nel limitare le emissioni al fine di combattere i cambiamenti climatici, il piano di Obama si propone anche di dare una spinta all’economia, creando decine di migliaia di posti di lavoro nel settore delle tecnologie sostenibili, tanto che 365 aziende hanno scritto a 29 governatori di altrettanti Stati in supporto del piano, sostenendo che questo creerà lavoro e rafforzerà l’economia. Inoltre il piano promette di far risparmiare soldi ai cittadini e all’intero sistema paese: secondo i dati forniti dalla Casa Bianca, nel 2030 le bollette degli americani si ridurranno di circa 85 dollari all’anno, i consumatori risparmieranno 155 miliardi di dollari e verrà risparmiata una quantità di energia sufficiente ad alimentare 30 milioni di case nel 2030. Tanti anche i benefici per la salute (che si traducono anche in risparmi economici): sempre secondo i dati riportati sul sito Internet della Casa Bianca, il piano impedirà 3.600 morti premature, 1.700 infarti, 90.000 attacchi d’asma ed eviterà agli americani di perdere 300.000 giorni di lavoro o di scuola.

Obama durante il discorso di presentazione del Clean Power Plan, il 3 agosto
Eppure le critiche non mancano, come ha anticipato lo stesso Obama nel presentare il piano lunedì sera: “Ci saranno cinici che diranno che non si può fare […]. Diranno che questo piano vi costerà denaro anche se le analisi mostrano che questo piano finirà per far risparmiare all’americano medio 85 dollari all’anno sulle bollette energetiche. Diranno che dobbiamo tagliare i nostri investimenti in energie pulite, perché è uno spreco di soldi, anche se sono felici di spendere milioni di dollari all’anno in sussidi alle compagnie petrolifere. Diranno che questo piano farà perdere posti di lavoro, anche se la nostra transizione verso un’economia basata su energie più pulite come l’industria del solare, per dare un solo esempio, crea posti di lavoro a un ritmo dieci volte superiore al resto dell’economia. Diranno che questo piano è una guerra al carbone, per spaventare l’elettorato, mentre ignorano che il mio piano investe nella rivitalizzazione delle aree la cui economia si basa sul carbone, supportando assistenza sanitaria e piani di pensionamento per i minatori e le loro famiglie e riaddestrando questi lavoratori per lavori meglio pagati e più sani”.
Già prima dell’annuncio ufficiale, governatori e candidati repubblicani alle presidenziali si erano espressi contro il provvedimento. Lunedì, la reazione del candidato Jeb Bush non si è fatta attendere: l’aspirante presidente repubblicano, durante un discorso ad alcuni sostenitori della sua campagna, ha detto che il piano sarà “un disastro” e sul suo sito Internet ha pubblicato una dichiarazione in cui definisce il Clean Power Plan “irresponsabile”, accusandolo di provocare la perdita di posti di lavoro e l’aumento dei costi dell’energia. Alcuni Stati, tra cui Texas, Kentucky, Louisiana, Wisconsin e Oklahoma, hanno fatto capire di volersi opporre al piano presidenziale semplicemente rifiutandosi di elaborare un proprio piano. Se questo dovesse avvenire, è tuttavia probabile che il Governo federale elaborerebbe piani per gli Stati “ribelli”. Infine, a mettere i bastoni tra le ruote del piano di Obama, potrebbero essere questioni legali: la regolamentazione dell’EPA, così come la sua stessa autorità in materia, è già stata messa in discussione nell’ambito di diversi procedimenti legali, alcuni dei quali ancora in corso.
Reazioni positive, invece, dalla candidata democratica Hillary Clinton, che si è impegnata a difendere il piano nel caso fosse eletta, e dall’indipendente Bernie Sanders che ha twittato: “Il presidente Obama sa che il climate change è una grande sfida planetaria e che dobbiamo agire con forza per trasformare il nostro sistema energetico”.
Come ha spiegato il presidente stesso, il piano di Obama punta a dare agli Stati Uniti un ruolo di leadership in ambito climatico. “A dicembre, con l’America a indicare la via, abbiamo la possibilità di raggiungere uno dei più ambiziosi accordi internazionali sul clima nella storia dell’umanità” ha detto Obama sottolineando che è un dovere degli Stati Uniti assumere quel ruolo di leadership e che, se paesi come la Cina stanno iniziando a prendere provvedimenti, è proprio perché sanno che anche l’America farà la sua parte. Con la Conferenza ONU sul clima in programma a Parigi per il prossimo dicembre, da cui il mondo intero si aspetta un accordo mondiale finalmente in grado di portare la Terra su un percorso virtuoso, l’America non può permettersi di ripetere gli errori del passato.
Nel 2009, durante la COP15 di Copenhagen (le Conference of the Parties, COP, sono le conferenze della United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC che si tengono ogni anno. Quella di Parigi sarà la ventunesima), un’America già guidata da Obama era stata largamente responsabile (anche se non l’unica responsabile) del fallimento delle trattative internazionali. Un fallimento che provocò una lunga onda d’urto che riportò le trattative indietro di anni, con il risultato che gli accordi sul clima rimasero arenati fino ad oggi.
L’incontro di Copenhagen si inseriva in un contesto mondiale di crisi economica, con un’America ancora sotto shock per la bolla immobiliare e finanziaria che le era scoppiata addosso. Non era lo scenario migliore per parlare di riduzioni di gas serra e investimenti in fonti rinnovabili: l’industria tradizionale faceva già fatica e non seppe vedere nella sfida climatica un’opportunità di uscire dalla crisi, mentre Obama non volle prendersi la responsabilità politica di scommettere sulle tecnologie sostenibili. La risposta fu business as usual, con molti analisti che prevedevano che la crisi, da sola, sarebbe stata in grado di ridurre le emissioni. E così è stato, almeno in parte. Infatti, se il piano di Obama sembra ambizioso, va detto che le emissioni americane sono già scese del 15 per cento dal 2005 al 2013. Una riduzione che non è stata frutto tanto di politiche illuminate (che pure ci sono state, almeno in parte) quanto della recessione, oltre che del boom del gas naturale (fonte tuttavia controversa in quanto, pur producendo energia a minori emissioni di anidride carbonica, viene estratta con metodi che mettono a rischio riserve d’acqua e qualità dell’aria delle zone di estrazione) di cui sono stati scoperti enormi giacimenti in territorio americano.
Lo scenario in cui gli USA si avviano verso la COP21 è uno scenario diverso da quello di sei anni fa. Dal 2009 ad oggi, paesi come la Germania hanno ampiamente dimostrato che le tecnologie sostenibili possono dare impulso all’economia e l’America ora può percorrere la strada dei tagli alle emissioni e delle rinnovabili con più sicurezza. Con l’economia in ripresa e partendo avvantaggiati grazie alla riduzione delle emissioni e alle grosse quantità di gas cui fare affidamento per una produzione di energia a emissioni contenute, gli USA possono cominciare a parlare seriamente di lotta ai cambiamenti climatici. L’industria americana può ricominciare a guardare al futuro con ottimismo e capacità di innovazione, investendo per rinnovarsi e rinnovare. E Obama può mettere un’altra crocetta sulla lista di obiettivi che si era dato per la sua presidenza: portare l’America ad un ruolo di leadership nell’ambito degli accordi sul clima. Per recuperare il tempo perduto serve una forte spinta, ma recessione e gas naturale hanno dato un notevole aiutino, senza far rischiare la poltrona alla leadership democratica: sei anni dopo Copenhagen, Obama potrebbe essere riuscito a salvare capra e cavoli.
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