Dal 5 all’8 marzo, papa Francesco effettuerà una visita apostolica nella tormentata terra irachena. La missione del papa è di grande significato, sotto il profilo strettamente religioso, ma anche sotto il profilo degli affari regionali e internazionali. L’instabilità della regione del Golfo e segnatamente dell’Iraq è un dato che ci accompagna da molti decenni, e che è stato ulteriormente acutizzato dalla seconda invasione del paese, nel 2003, da parte del governo degli Stati Uniti. Al papa, che ha superato a dicembre 84 anni, va riconosciuto un grande spirito missionario, insieme a uno spirito pacificatore senza eguali. Non va sottovalutato il coraggio personale, legato innanzitutto alla fatica che un viaggio del genere presenta per una persona della sua età peraltro in tempi di pandemia attiva, ma anche ai rischi collegati all’instabilità irachena e alla follia di Daesh. Il califfato nero ha effettuato due attentati a Baghdad il 20 gennaio con una quarantina di morti e decine di feriti, e ha colpito militarmente nell’est della Siria il 9 febbraio uccidendo 26 governativi.
Della visita e della situazione, ho ragionato, in esclusiva per i lettori de La Voce, con monsignor Khaled Akasheh, di origine giordana, del clero del Patriarcato Latino di Gerusalemme.
Akasheh è a capo dell’Ufficio per l’Islam presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con i Musulmani.
Se volessimo sintetizzare in una frase l’obiettivo della visita apostolica di papa Francesco in Iraq, quale sarebbe più indicata? San Giovanni Paolo papa voleva recarsi in Iraq nel dicembre 1999, e non gli fu possibile. L’obiettivo da raggiungere è lo stesso di allora, o, mutate talune circostanze, anche la strategia della missione può dirsi cambiata?
“Come è noto, Papa Francesco è una persona di ricca umanità e che ha un linguaggio che lo contraddistingue. Si potrebbe dunque dire, in risposta alla domanda, che Egli si reca in Iraq come pellegrino sui passi di Abramo, per toccare con mano le ferite profonde di una Chiesa e di un popolo travolti dalla violenza cieca e insensata, perpetrata inoltre in nome di una religione. Tale pretesa è stata rifiutata dalle più alte autorità religiose musulmane”.
Il Santo Padre è stato invitato dalla Chiesa locale e dal presidente della repubblica irachena Barham Salih, lo scorso dicembre, durante una visita in Vaticano. Nel comunicato ufficiale. all’epoca, si indicarono i luoghi previsti dall’agenda di viaggio: “Baghdad, la Piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, la città di Erbil, così come Mosul e Qaraqosh nella Piana di Ninive”. A parte la capitale, qual è il significato delle altre località e perché iracheni e Santa Sede le hanno scelte?
“Non dispongo di informazioni, né sono autorizzato a pronunciarmi a nome della Santa Sede. Tuttavia, la risposta alla prima domanda è valida anche per rispondere a questa: visitare da padre e da fratello una comunità e un paese che hanno molto sofferto e che hanno bisogno di sostegno e di speranza”.
Mi viene da pensare che Gesù nel Vangelo chiede di andare nell’universo mondo e predicare “alla luce del giorno” e “dai tetti”. E che Paolo, quasi a spiegare gli effetti di quel mandato, afferma che è l’amore di Cristo a spingere i cristiani all’apostolato (caritas Christi urget nos). Ciò premesso, perché il motto della missione pontificia è “Siete tutti fratelli”, rivolto agli iracheni, e non “Siamo tutti fratelli” che include anche la Sede Apostolica e in qualche modo l’universo mondo?
“Non vedo tanta differenza, né dispongo di elementi particolari per poter rispondere alla domanda. Si tratterebbe forse di un invito all’unità e alla fratellanza rivolto agli iracheni di tutte le etnie, le religioni e le confessioni religiose. C’è un urgente bisogno di ricomporre un ricco mosaico -etnico, religioso e culturale-, di restituirgli la sua bellezza originale e di custodirla”.
Nella visita di papa Francesco c’è anche la sollecitudine del capo supremo della Chiesa Cattolica, verso comunità sottoposte da troppi decenni ad attacchi, stragi, distruzioni, nell’evidente volontà di alcuni gruppi armati che rivendicano l’appartenenza all’islam, di sradicare definitivamente dalla regione mediorientale, culla del cristianesimo, ogni presenza cristiana. Con Saddam Hussein i cristiani erano tra 1 milione e 1 milione 400mila; oggi sono fra 300 e 400mila. Paradossalmente, alcuni commentatori affermano che in Iraq per il papa sarà più complesso il dialogo con il suo popolo impaurito, che con l’islam. Quali prospettive ha il cristianesimo in Iraq e quali novità potrà portare la visita di Francesco?
“Le autorità religiose cristiane – a cominciare dal Cardinale Louis Raphael Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei – come pure le autorità politiche, incoraggiano i cristiani a rimanere o a tornare nella terra dei loro padri. Tuttavia, per tornare e rifarsi una vita c’è bisogno di tante cose: pace, sicurezza, giustizia, uguaglianza tra tutti i cittadini, ricostruzione, condizioni necessarie per una vita dignitosa e così via. Penso che Papa Francesco farà pervenire questo messaggio con forza, vista la Sua autorità istituzionale e morale. Anche per questo la Sua visita è molto attesa”.
A questo proposito, i cattolicesimi autoctoni siro-cattolico e caldeo appaiono da qualche tempo esprimersi in modo non pienamente armonico. Ci sono almeno due posizioni diverse dalla linea del patriarca caldeo di Baghdad, il cardinale iracheno Louis Raphael Sako. La prima chiede la costituzione di una milizia cristiana che difenda la comunità; il cardinale risponde che chi vuole combattere si arruoli nell’esercito nazionale o in quello curdo. La seconda è espressa dalla comunità di emigrati negli Usa e punta attivamente a trasferire cristiani iracheni negli Usa. Il cardinale ha avuto parole pesanti, anche verso il vescovo caldeo che negli Usa patrocina l’operazione. Non credo sia fuori luogo ricordare che l’inizio dei guai, per i cattolici iracheni, sono iniziati con la seconda invasione statunitense del paese.
“Il Patriarca Sako è un pastore zelante, saggio e coraggioso. È l’uomo della Provvidenza per la propria comunità e per l’intero Paese. È inoltre un intellettuale che fa sentire spesso la sua voce su questioni religiose e sociali a livello nazionale e regionale”.
La visita a Najaf e l’incontro con il grande ayatollah Ali Sistani, principale guida religiosa sciita dell’Iraq, stimolano due domande. Su quale base potrà dispiegarsi il dialogo tra i due leader religiosi? Come la prenderà l’islam sunnita?
“Si tratta di un incontro importante dal quale si aspettano buoni frutti, e non solo per l’Iraq”.
L’ultima domanda, strettamente collegata alle responsabilità specifiche rivestite nella Santa Sede: a che punto siamo nel dialogo tra cattolicesimo e islam? Non sono forse così rilevanti le differenze, da spingere ad accettare l’idea che non ci saranno, almeno nei prossimi anni, sviluppi significativi? E la visita in Iraq del Santo Padre quanto potrà migliorare quel dialogo?
“La Chiesa è segno e strumento di unità per il genere umano nelle sue diversità etniche, religiose, culturali, ideologiche. Il dialogo interreligioso e interculturale promossi a livello della Chiesa universale e delle Chiese locali mira a realizzare la comprensione, la pace e la collaborazione tra tutti i membri dell’unica famiglia umana”.