Venezia dovrebbe ricevere il Nobel per la Pace perché è sempre stata il punto di incontro tra culture diverse. A parlare è il Rabbino Capo Rav Scialom Bahbout, originario di Tripoli e, dall’età di 10 anni, residente in Italia.
Scialom Bahbout ha conseguito il titolo di Rabbino a 21 anni, ma prima di svolgere questo incarico a tempo pieno, è stato per 35 anni professore di Fisica alla Facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Dopo Bologna, Napoli e Roma, da un anno è alla guida della Comunità ebraica di Venezia, formata da circa 500 persone. Come 500 sono gli anni che il Ghetto di Venezia festeggerà il 29 marzo con una serie di iniziative di cui abbiamo parlato con Rav Scialom Bahbout che ci ha raccontato anche di progetti per la valorizzazione della cucina ebraica e ha lanciato un messaggio di pace per Israele e Palestina.

Che ruolo ha la Comunità ebraica di Venezia oggi?
“Questa comunità è tra le più piccole esistenti, ma è anche quella con il patrimonio storico e culturale tra i più antichi al mondo. Qui si parla di secoli e secoli di storia. Inoltre Venezia ha avuto un ruolo centrale per la stampa. Molte edizioni di libri sacri sono stati stampati qui per la prima volta. Insomma, Venezia è una pietra miliare della storia ebraica”.
Qual è l’origine degli ebrei che vivono nella Comunità ebraica di Venezia?
“I primi ad arrivare sono stati gli ashkenaziti, dalla Germania. Poi, dopo il decreto di Granada del 1492 fatto dai re cattolici di Spagna, sono arrivati gli ebrei dalla penisola iberica, chiamati sefarditi. Poi, nel 1541, giunsero a Venezia gli ebrei espulsi dal Regno di Napoli, quindi dal Mezzogiorno e dalla Puglia. Immaginatevi come doveva essere il Ghetto nel 1516, quando si sono ritrovati a dover convivere ebrei provenienti da luoghi diversi, quindi con una propria cultura. Questo dà l’idea del lungo processo di integrazione che è avvenuto nei secoli e di come oggi a Venezia la Comunità ebraica sia perfettamente integrata”.
Quali progetti ha in mente per il futuro?
“Per quanto riguarda la Comunità ebraica vorremmo, per esempio, valorizzare il settore del cibo perché potrebbe diventare un motore di sviluppo e di innovazione. La Silicon Valley è un posto piccolo, ma da lì provengono grandi idee innovative. Lo stesso potrebbe avvenire a Venezia. Tra le idee c’è quella di puntare sul cibo. A proposito, proprio nel cibo si vede l’integrazione tra ebrei e veneziani. Molti piatti oggi considerati veneziani sono anche israeliani. Un esempio? Le sarde in saor o i bigoi in salsa sono piatti che si ritrovano nella nostra cultura, come anche i dolci con le uvette. Sicuramente le uvette sono un ingrediente importato che da noi è sempre stato di uso quotidiano. C’è anche da dire che la prima forma di certificazione dei cibi viene dagli ebrei. Kosher significa certificazione, autorizzazione. Insomma, c’è una cultura del cibo ebraico che può essere riscoperta”.

Che cosa si aspetta dalle celebrazioni dei 500 anni?
“Le celebrazioni richiamano sempre qualcosa collegato al passato, ma invece vorrei che si pensasse al futuro. Ovvero, conoscere il passato con lo scopo di trasformarlo in qualcosa di attivo per il futuro, in modo da restituire all’intera città quel respiro internazionale che rappresentava e che può ancora rappresentare Venezia in tutto il mondo, non solo per noi ebrei”.
È da qui che nasce l’idea di dare a Venezia il Nobel per la pace?
“Non ho ancora scritto formalmente la proposta, ma lo farò sicuramente. Certo, Venezia per sua stessa natura ha questa missione di unire culture diverse e lo dimostra con la sua storia. In questo periodo si parla di continuo di terrorismo. Venezia è una città che da sempre è predisposta a un incontro tra Oriente e Occidente e potrebbe essere concretamente un simbolo di pace”.

Il Ghetto di Venezia sembra una piccola isola di pace. Come si vive da qui la questione palestinese?
“Seguiamo quello che succede, anche da distanti. La situazione attuale non porta a nulla. Anche mettendo la questione su un piano di vantaggi, c’è qualcosa da guadagnare da questa guerra? A che cos’ha portato l’ultima Intifada dei coltelli? A nulla. La pace è l’unica soluzione e sarebbe anche l’unico vantaggio per tutti, ma bisogna essere in due per farla. A mio parere, se i palestinesi fossero stati e fossero più lungimiranti potrebbero vedere Israele come un grande alleato. Un esempio è quando Israele ha abbandonato le zone agricole di Gaza che erano organizzate e avviate. Invece di continuare a coltivarle sono state distrutte. Per quanto riguarda Israele credo invece che dovrebbe conoscere meglio la cultura araba. Insomma, israeliani e palestinesi potrebbero diventare alleati, creare un mercato comune e questo sarebbe vantaggioso per entrambi. Nessuno ci ha ancora lavorato bene. L’unica volta che un accordo di pace era quasi riuscito, parlo del protocollo dell’autonomia di Gaza e Gerico del 1994 con il primo ministro israeliano Ehud Barak, Yasser Arafat non ha firmato. Questa è comunque la direzione”.
Pensa sia possibile?
“È difficile, ma quello che è difficile non è impossibile. Insomma, non si possono buttare in mare gli ebrei! Io stesso con la mia famiglia sono fuggito dalla Libia nel 1958, a 10 anni, a causa dei conflitti che rendevano impossibile continuare a vivere lì. Siamo scappati da un giorno all’altro, con le chiavi della casa di Tripoli in mano, ma non ci siamo più tornati e io mi ricordo perfettamente la mia casa. L’unica cosa che ci siamo portati via è stato un pianoforte perché mia sorella non poteva stare senza e mia mamma non voleva privarla di questo strumento. Siamo andati a Torino, poi mia sorella ha sposato un veneziano e mi ha preceduto. Racconto questo per dire che ci sono stati anche tanti ebrei costretti ad andarsene, ma in nessun caso si può pensare che eliminare l’altro sia la soluzione”.