Il fatto a mano ha uno status nella nostra era globalizzata e di rivoluzione post-digitale. Il fatto a mano coincide con un’aura di nobiltà, distinzione e lusso. Non a caso queste qualità declinano lo stato identitario del made in Italy, come brand e come lifestyle. Ma non solo, naturalmente. Nella retorica e dei codici pubblicitari dei brand più importanti, da Hermes, Louis Vuitton, a Ferragamo, Fendi, Chanel, Valentino, si sottolinea l’importanza della mano artigianale per definire il loro status e appartenenza al polo del lusso. Quello che era un segreto, il know how, dell’antico laboratorio medievale, del maestro artigiano è invece oggi portato allo scoperto per definire l’identità e la storia di un marchio. Ma è ancora possibile sostenere che il fatto a mano sia da considerare all’opposto del fatto a macchina e che conservi un’aura di unicità e bellezza? O ancora, è possibile o corretto sostenere che le due competenze e processi possano essere tenuti distinti?
In corso al Metropolitan Museum di New York fino al 5 settembre, Manus x Machina. Fashion in an Age of Technology, l’ultima mostra curata da Andrew Bolton, che ora ricopre il ruolo di head curator del Costume Institute nel Metropolitan Museum di New York, ha molti meriti. Primo fra tutti quello di lanciare una sfida a questo tipo di dicotomia e di andare a indagare proprio quello che spesso rimane nascosto, invisibile ad occhio nudo: il fare e il processo di design e manifattura degli abiti.
La mostra dunque pone e affronta intelligentemente il rapporto complesso tra moda artigianale, o il fatto su misura, che ha definito tradizionalmente la haute couture, e il fatto a macchina, l’uso delle tecnologie, la produzione in serie, che ha definito il prêt-à-porter. Come sostiene Bolton, questo rapporto si è sviluppato nel corso del tempo in un continuum di varie collaborazioni e usi.
Del resto, l’invenzione e poi impiego della macchina da cucire hanno quasi coinciso, nell’Ottocento, con la nascita della couture. La dinamica manus x machina che fa parte della nostra realtà contemporanea si sposta e rivela le connessioni con il passato, richiamando l’attenzione sulla sua lunga storia. E questo emerge chiaramente dalla mostra del MET. Infatti una calibrata scelta di abiti di couture e prêt-à-porter esaminati come case study, sono i protagonisti della mostra. Le tecniche e i trucchi rivelati, con disegni e stili diversi, mostrano come il rapporto gerarchico tra couture eprêt-à-porter non è solo utopico ma obsoleto. Tale struttura sia spaziale-espositiva che concettuale segue quella definita dalla Enciclopedia di Diderot e D’Alembert pubblicata tra il 1751 e il 1772 che fa una mappatura dei mestieri legati alla sartoria che poi definiranno anche la nascita successiva della couture nel territorio francese. Da qui si determina il vocabolario dell’alta moda che dominerà per secoli assegnando la supremazia internazionale alla couture parigina e impregnando tutte le varie specializzazioni nell’ambito dell’atelier dell’alta moda, il pizzo, il ricamo, i fiori artificiali e così via.
Con queste premesse, non possiamo che cogliere con entusiasmo l’invito della mostra a una meditazione sul significato degli abiti e della moda oggi e a leggere in maniera critica l’opposizione uomo/macchina. Partiamo dalla questione della gerarchia.
Manus et machina = artigianato e tecnologia
In varie recensioni della mostra e dallo stesso curatore nel bellissimo catalogo, è stato detto che questo tipo di gerarchia non può più essere sostenuta. Perché i due know-how si completano e insieme danno luogo a nuove cifre stilistiche e a concetti nuovi di eleganza e bellezza. Proprio questo rapporto così esplicitato lo troviamo nei capi di Prada esposti nella mostra e nella intervista alla stessa Miuccia Prada condotta da Andrew Bolton, e contenuta insieme ad interviste ad altri stilisti (Sarah Burton, Garret Pugh, Hussein Chalayan, Nicolas Ghesquiere, Maria Grazia Chiuri and Pierpaolo Piccardi, Karl Lagerfeld) nella seconda parte del catalogo.

Questa parte infatti è molto utile per approfondire alcune questioni poste nel saggio introduttivo ma anche per articolare lo stesso concetto della mostra. Miuccia Prada nell’intervista afferma che le due categorie della haute couture e del prêt-à-porter non possono più essere tenute distinte ma che invece trova più proficuo guardare alla complessità e complicazione dei processi di design dove, come mostrano alcune delle sue creazioni (la collezione del 2008-09) si assiste ad una amalgama di ricami fatti sia a mano sia ottenuti e rifiniti grazie alle tecnologie. Come anche la sperimentazione, a cui si riferisce nell’intervista, dello sviluppo delle tecniche tessili e di design. Qualcosa che certamente coincide con il DNA del marchio Prada.
L’accoppiamento Coco Chanel /Prada nell’ambito del Little black dress l’ho trovato così stimolante ma anche così importante per capire come Prada possa connettersi al passato e nello stesso tempo andare in una sua direzione completamente innovativa. Il fatto di utilizzare lo stesso tessuto delle borse con cui ha rivoluzionato lo stile del casual chic per l’abito vagamente anni ’50 nel taglio ma completamente moderno e minimalista per l’uso delle cerniere e tessuto di nylon, ridefinisce il lusso inspirato dall’industrial design.

L’installazione

© Nicholas Alan Cope
L’ingresso alla mostra ha una bellezza priva di fregi, tra la semplicità e il sublime. Si entra come in un tempio secolare, una passerella al centro dove troneggia l’abito couture disegnato da Karl Lagerfeld per Chanel, Autunno/Inverno 2014-15, che ricorda il costume femminile del Cinquecento, realizzato in materiale del tutto sintetico, neoprene, e scelto proprio per la sua malleabilità e insieme capacità scultorea. L’abito ha uno strascico imponente con le sue decorazioni e che si presenta come un vero e proprio ibrido tra il fatto a mano e a macchina. Infatti è stato prima dipinto a mano, poi la stampa a macchina è stata riprodotta con pietre di strass e alla fine ricamato a mano con perle e gemme. Lo strascico ha richiesto 450 ore di lavoro per essere completato. Karl Lagerfeld lo ha definito “haute couture senza la couture”. È stato realizzato per il matrimonio della Modella Ashleigh Good che all’epoca aspettava sua figlia Emily.
L’abito è presentato da solo, non ci sono altri vestiti intorno, ci sono solo i volumi della Enciclopedia di Diderot/D’Alembert aperti sulle pagine dei mestieri della moda. Una musica soft d’ambiente, del minimalismo tipico di Brian Eno (An Ending) avvolge l’atmosfera quasi ovattata. Il soffitto e le pareti sono bianche e avvolti in una mussola semitrasparente che rende le pareti porose, come una sottile membrana che protegge dal mondo e allo stesso tempo mostra come l’esterno e l’interno del mondo, dell’anima, di un vestito e del fare, siano tutti sottilmente interconnessi. Ma allo stesso tempo questa porosità tipica della moda comunica insieme la sua fragilità e la sua forza.
L’abito da sposa di Karl Lagerfeld e l’ingresso architettonico stabiliscono in maniera esemplare e precisa l’antefatto della mostra ma sono anche un invito alla meditazione, a riflettere senza farsi prendere dal panico, dal rumore e dalla ossessiva proliferazione di immagini o idee che non hanno nessuna sostanza.
Il metodo

“Vilmiron” dress, PRimavera/Estate 1952 haute couture. Foto: Courtesy,
The Metropolitan Museum of Art, New York, Gift of Mrs. Byron C. Foy, 1955 © Nicholas Alan Cope
Questa è un mostra che indaga anche una questione di metodo. Gli abiti, come case study scelti magistralmente per la mostra non sono solo rivelati, ma sono come vivisezionati e mettono in evidenza le tecniche della manifattura e dei suoi processi combinatori. Da qui un elemento importantissimo è l’accoppiamento di certi abiti seguendo determinati dettagli e concetti, come rivelato nel caso di Prada e Chanel e continuando con Prada e Callot-Soeurs. Affascinante vedere come Madelaine Vionnet sia esposta in prossimità con Issey Miyake, oppure Paul Poiret e Alexander McQueen (Prêt-à-porter, ensemble 2012-13). Per non parlare delllo spettacolo di poter guardare da vicino e insieme i capolavori di Dior (Juno Dress e Venus Dress, 1949-50).
Il catalogo infatti offre ulteriori momenti di approfondimento quando si possono vedere insieme le foto dei dettagli che avvicinano designer così distanti cronologicamente e capi che appartengono alla storia della couture e alla storia del prêt-à-porter. Infatti, grazie agli strumenti e alle tecnologie usati nel campo medico dell’ottica è possibile quasi letteralmente penetrare nei segreti dell’abito. Dettagli e tecniche che sarebbe impossibile cogliere ad occhio nudo. Anche questo un punto centrale della mostra.

Moda e Tempo
Il tempo e la temporalità regnano sovrani in questa mostra. Infatti la mostra materializza il tempo della moda e il tempo del fare. E lo fa in maniera multipla e sottile. Nel vestito da sposa di Lagerfeld è inscritto in fieri un tempo futuro, qualcosa che è sul punto di nascere ma che ha tracce continue di passato e presente, di ritorni (vedi i materiali, i ricami) ma anche il richiamo a un tempo che precede (Diderot e l’illuminismo) e la nascita ufficiale della couture che è identificata con Charles Frederick Worth, un inglese che si stabilisce a Parigi che successivamente si lancia come capitale della moda e della modernità.
Il riferimento all’operazione dell’enciclopedia e alla mappatura dei mestieri e degli strumenti di lavoro e delle tecniche è importante perché, come sottolinea Bolton nell’introduzione al catalogo, Diderot fa un’operazione di portata copernicana. Vale a dire l’affermare con forza la dignità dei mestieri e professioni artigianali che trovano spazio nella organizzazione del sapere e della cultura e sono così elevate nella gerarchia delle discipline così dette intellettuali come le arti e le scienze. La mano incontra la mente. Ma qui il loro connubio è codificato e certifica questo rapporto che è stato storicamente fondato da una dicotomia che va indietro nella storia fino ad Aristotele. La mano si riannoda all’intelletto e nobilita le sue opere, dà dignità a un mestiere e nel nostro caso al mestiere del sarto e del suo atelier. Questa è una questione di grande attualità nell’ambito degli studi sulla moda ma anche nel contesto di craft e tecnologia.
L’operazione di Diderot, bisogna dire, ha una lunga storia non solo in Francia ma anche in Europa e soprattutto in Italia. Infatti la tensione verso l’enciclopedismo comincia e coincide con un periodo di grandi trasformazioni durante le esplorazioni geografiche, l’invenzione della stampa, la formazione delle lingue nazionali e dunque del concetto di nazione. Non a caso, dunque, proprio a ridosso dell’umanesimo e del rinascimento nasce il bisogno di definire e di trovare un linguaggio della moda o “la cosa degli abiti” come la chiama l’artista e scrittore veneziano Cesare Vecellio. È in questo periodo infatti che gli abiti sono esaminati e studiati con la loro portata identitaria, le cifre stilistiche e di disegno e naturalmente i loro risvolti economici politici e sociali. Gli abiti infatti fanno parte di una mappatura sociale e geografica, una creazione di una struttura paradigmatica che si sofferma sui dettagli, stili, stoffe, ricami organizzando spazialmente il sapere tra arte della memoria ed enciclopedismo. In questo periodo, a partire dal Cinquecento si pubblicano opere che definiscono determinati mestieri e arti come quella del ricamo che qualche secolo dopo definiranno non solo la couture parigina ma anche l’Italian style. Sempre Cesare Vecellio, oltre alla sua importante opera, Habiti Antichi et Moderni di tutte le parti del mondo, 1590 e 1598) pubblica e stampa Corone delle nobili e virtuose donne (1550, un libro di ricami).
Quasi in bilico tra racconto ed enciclopedismo barocco Tommaso Garzoni pubblica La piazza universale delle professioni nel mondo (1585) dove emerge la figura del sarto e di altri artigiani. Dunque l’enciclopedismo illuminista di Diderot trova le radici nell’enciclopedismo rinascimentale e barocco.
La storia e la poesia
Così questa mostra descrive una storia non lineare e materializza sotto i nostri occhi quello che i filosofi della modernità come Diderot e Benjamin (entrambi richiamati da Bolton) hanno a loro volta teorizzato. Ma la mostra spiega in maniera poetica i motivi, poi non tanto misteriosi, per noi che studiamo la storia della moda, per cui la moda apre una serie di finestre per spingerci a capire e interrogare la storia individuale e collettiva. Vorrei infatti richiamare a tale proposito la matrice etimologica della parola poesia che deriva dal verbo greco poiein che significa fare, creare.
Non a caso, e a conferma di quello che sostiene Bolton, gli abiti e la moda vengono ad assumere un ruolo importante. Quindi non solo e non tanto per entrare dentro le pieghe e i segreti di un abito, delle sue assonanze e somiglianze, del citazionismo, ma anche per capire che l’abito o la moda ci portano in mondi coevi e paralleli che con gli abiti sembrano non avere nulla a che fare. Come le scienze, l’architettura, la medicina, la poesia, la filosofia, le fantasie e i ricordi. E per questo dobbiamo ringraziare Andrew Bolton. Per averci regalato questa mostra non solo per ammirare ma anche per pensare, riflettere sulla grande ricchezza di idee. E allo stesso tempo apprezzare la compostezza e la serenità che caratterizzano la saggezza e la bellezza.