Sono appena rientrata dalla mia visita all’Università per Stranieri di Perugia dove sono stata visiting professor nel corso di laurea sulla Promozione dell’Italia all’estero. Un corso di laurea unico tra le università italiane. Questo programma, fondato dalla Rosanna Masiola, ricercatrice di studi anglo-americani e nel campo degli studi della moda e teorie della traduzione, è ora diretto da Francesca Malagnini che insegna storia della lingua e linguistica in rapporto anche agli studi della moda.
Direi che questo scambio sia testimone di un rapporto naturale con il programma di Italian Studies del Queens College che offre corsi innovativi sullo studio della cultura italiana, il made in Italy e le sue intersezioni con l’identità nazionale e la globalizzazione, il rapporto dell’Italia con gli Stati Uniti, e anche gli studi di teoria e cultura della moda nel Master of Arts in Liberal Studies al Graduate Center della CUNY che ho fondato e dirigo. Questi programmi al Queens College e al Graduate Center, dove c’è anche una specializzazione in Italianistica nell’ambito di Letterature Comparate offrono delle intersezioni con altri programmi e dipartimenti e dunque, a loro volta, stabiliscono un osservatorio prismatico e unico sull’Italia e Iisuoi poli di eccellenza nei vari campi del sapere e delle industrie culturali come la moda, il cinema, la televisione, ecc.
Ma torniamo alla ricchezza di questa mia esperienza a Perugia; al dialogo con colleghi e studenti che provengono da vari paesi come la Russia, l’Albania, l’Egitto, la Francia, la Cina e il Medio Oriente. Durante il mio soggiorno ho appreso di alcune esperienze nel campo della moda e del design, testimoni della vitalità del made in Italy in una regione come l’Umbria che ha visto il successo internazionale di un brand, di uno stile di vita e di un approccio: quello che è stato definito “capitalismo umano” di Brunello Cucinelli.
La moda è stata ed è associata all’esperienza urbana, alla città, alle sue trasformazioni nell’ambito architettonico, processi di gentrificazione, processi migratori. E naturalmente tutto questo è importante e regge come framework interpretativo e conoscitivo. Quello che non regge è pensare che la moda, con il suo complesso sistema simbolico e la sua produzione manufatturiera, sia accorpata alla sola città. Questo non è vero per l’Italia (non lo è mai stato) e non è vero per tutto il resto del mondo. Perché se da un lato le città e le capitali della moda sono più facilmente rintracciabili nelle mappe geografiche e digitali, quello che bisogna sempre più fare con grande attenzione e destrezza è proprio una mappatura dei luoghi meno conosciuti e delle esperienze nuove che stanno nascendo in Italia che sono distanti anni luce da una retorica dell’artigianato vecchio stile. Da un lato queste esperienze recuperano il meglio del passato per una invenzione del futuro che si sposa con l’idea del fatto a mano (craft) e con le ultime innovazioni delle tecnologie. Bisogna dunque oggi più cha mai far conoscere al mondo queste realtà che sfidano lo status quo ma anche danno una visione nuova dell’Italia.
Per me che studio l’Italia da un osservatorio incredibile come New York, salta subito agli occhi come queste nuove esperienze siano molto intrecciate e connesse con le realtà di nuovi designer ed entrapeneur che si trovano a New York. E credo che questa sia una delle direzioni da prendere per approfondire non solo la nostra conoscenza del territorio, ma anche affinare il nostro sguardo e il nostro metodo di indagine sull’Italia, il made in Italy e i suoi significati nel XXI secolo.
Così tra le mie conversazioni con le colleghe di Perugia e Sabrina Cittadini, scopro una serie di esperienze interessanti che non posso elencare tutte in questo breve articolo ma che sono emblematiche di come sia importante dare spazio e voce ai fenomeni innovativi. Ma anche come sia emblematico il fatto che i piccoli centri in Italia nascondono dei tesori incredibili.
Qui vorrei soffermarmi su un esempio che riguarda la capacità imprenditoriale e inventiva nel design di una giovane donna. Scopro il marchio Lemuria creato da Susanna Gioia, una designer umbra che ha creato l’abito da donna trasformabile e polimorfo. Susanna è laureata in Scienze della comunicazione all’Università di Perugia. Già il nome Lemuria è tutto un programma. Lemuria, infatti è il nome di un continente o terra perduta, presumibilmente affondata nell’oceano come risultato di un cataclisma geologico. Una terra e una città immaginarie che sfuggono alla mappatura. Potrebbe essere il nome di una delle città invisibili di Italo Calvino. Dunque il nome stesso del marchio sembra essere un cristallo dalle molte facce che apre a molteplici suggestioni.
Poi, l’idea stessa dell’abito che può essere modificato e assumere varie forme, mi ha colpito molto, perché anche in questo concetto sono contenute una serie di suggestioni e rimandi. Nei primi del Novecento in Italia si sperimentava con il design e il concetto dell’abito polimorfo e trasformabile che segue la fluidità dei movmenti e del corpo femminile. Penso allo stupendo abito Tanagra creato da Rosa Genoni per se stessa e per la diva Lyda Borelli. Ma penso anche alla rivoluzione di un artista come Thayhat che parte dalla semplice forma della T della tuta e crea una mise unisex con una eleganza semplice e sofisticata. Ma questi esperimenti fortemente innovativi non presero piede nel panorama della moda italiana che, nei primi decenni del Ventesimo secolo, non era ancora sistema.

Gli abiti polimorfi e trasformabili di Susanna Gioia sono vestibilissimi e pratici ma anche eleganti. Presentano una molteplicità di stili modificabili a seconda dell’umore e dell’occasione partendo da un unico vestito. Il concetto stesso di vestito diventa un concetto dinamico, si plasma a seconda delle esigenze di un corpo femminile che si muove nello spazio e che comunica questa sua libertà di movimento. I materiali usati, di altissima qualità, per la realizzazione di questi abiti sono studiati per questo tipo di malleabilità e portabilità, jersey, viscose e tessuti bioelastici creati e prodotti in Italia. Questa idea del vestito prevede una consumatrice attiva che collabora e interagisce con il disegno dell’abito e le sue forme plurali e polivalenti. Il marchio di Susanna Gioia è stato già annoverato da Vogue Italia nel 2009 nella categoria dei nuovi talenti e le sue sfilate sono descritte come delle vere performance. Susanna Gioia proviene da una famiglia che ha lavorato nel campo della moda e che ha dovuto fronteggiare la crisi degli anni Novanta. Dunque questa storia ed esperienza di famiglia le ha fornito la piattaforma e il laboratorio necessari per inventare un nuovo marchio e un nuovo concetto del prodotto. In una intervista Susanna ha dichiarato che ha sviluppato la sua idea mentre era ancora all’università dove in un corso affrontavano la convergenza di tecnologie diverse. È in questo ambito che ha cominciato a pensare di applicare questo concetto alla multifunzionalità dell’abito ma anche al concetto che in inglese viene definito “customization” ma che qui significa “personalizzazione” di chi compra e indossa l’abito. La donna, infatti, può personalizzare l’abito con diversi look che di volta in volta si trasformano e si adattano a nuovi spazi e desideri. Susanna parte da forme geometriche come la T o anche il cerchio, sviluppando anche modelli ibridi. La sua idea iniziale si sviluppa con un team di persone esperte nella sartoria della sua azienda familiare che ha una esperienza trentennale nell’industria della moda, avendo già lavorato con i grandi marchi soprattutto tra gli anni Sessanta e Novanta. La designer afferma che, pur in un mondo così saturo di informazione e di sapere, ci sono tantissime cose da scoprire e da inventare e il suo è senz’altro un esempio rilevante.
Ma per Susanna Gioia, il made in Italy non può solo essere lo slogan che oggi si sente usare da tutte le parti come a registrare in taluni casi la paura della perdita dell’identità. Lei auspica invece un cambiamento di mentalità riguardo la produzione e cultura della moda in Italia ma anche una reale consapevolezza e investimenti da parte del Governo e dei politici del sistema Italia nei confronti dell’industria della moda. Si parla molto infatti di artigianato e di tutela delle eccellenze che hanno garantito all’Italia un ruolo unico al mondo. Ora bisogna più che mai proteggere l’industria della moda come uno dei nostri beni più preziosi con una nuova politica culturale e con nuovi strumenti governativi che promuovano l’innovazione e il senso del passato costruito con il lavoro e l’alta specializzazione.
L’artigianato, che è stato definito come la ricchezza dell’Italia, non può far parte di una retorica vuota e di propaganda ma deve diventare sistema di innovazione e tecnologia oltre che di bellezza. Ma le leggi devono e possono camminare solo se accompagnate da una trasformazione della mentalità e della cultura. Il ruolo delle università è importante per contribuire alla formazione di nuovi quadri ma anche alla diffusione del sistema Italia.