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July 15, 2014
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La moda italiana si mette in mostra a Londra

Eugenia PaulicellibyEugenia Paulicelli
Time: 7 mins read

Il prestigioso museo Victoria & Albert di Londra ha celebrato con una grande mostra la storia complessa della moda italiana curata da Sonnet Stanfil, che ha anche curato il bel catalogo in cui compaiono molti saggi di studiosi internazionali. La mostra nel contesto del suo ampio quadro storico, si propone di esaminare la formazione e il contributo dell’Italian Style alla moda internazionale. Si comincia dal 1951, anno in cui Giovanbattista Giorgini lancia da Firenze le sfilate delle più importanti sartorie italiane. Qui richiama il pubblico giusto e soprattutto i buyers dei prestigiosi grandi magazzini americani come Bergdof-Goodman, I Magnin, B. Altman e la stampa internazionale. 

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Evening dress of silk, 1987-1988, courtesy Roberto Capucci Foundation. Foto: Victoria and Albert Museum, London

La mostra segue nelle sue varie sezioni e stanze lo sviluppo del sistema moda in Italia. Dalla sartoria, gli accessori, l’industria tessile alla nascita dello stilismo, della moda boutique e poi pret-a-porter fino al fenomeno dei grandi brand e della couture. Si comprende come la moda abbia contribuito a raccontare i momenti cruciali di grande trasformazione economica, sociale e culturale dell’Italia nell’immediato dopoguerra fino al presente. Con le sue sfide in un presente sempre più complesso. L’industria della moda non può infatti non misurarsi con questioni di immigrazione, ambiente, condizioni di lavoro, crisi economica, ridefinizione e ripensamento del lusso, rapporto tra nuovi talenti che hanno difficoltà ad affermarsi in un mercato su cui i grandi brand possono esercitare più controllo, la formazione educativa di nuovi designer e personale specializzato che lavorino nell’industria ecc. Sono queste, alcune tra le sfide che l’industria della moda non può più evitare e soprattutto in Italia che dovrebbe meglio (e avrebbe dovuto)  investire il suo capitale culturale, economico e creativo sia nell’ambito scientifico che delle arti in una delle industrie, come quella della moda, che ha maggiormente contribuito alla sua identità e ricchezza. Quindi ben venga l’attenzione dedicata all’Italia e alla moda dedicata da istituzioni straniere così prestigiose come il Victoria & Albert Museum. Infatti si parla spesso e all’estero più che mai, del “made in Italy” e di come rilanciarlo oppure dargli un nuovo significato, magari attraverso un make-over. Così grazie al supporto delle politiche di comunicazione e di marketing si potrebbe dare una scossa ulteriore per risolvere la crisi Italiana attuale. Ma diamo uno sguardo a come si snoda la mostra.

All’ingresso dello spazio, il visitatore si trova alla sua destra un grande muro di travertino e sulla sinistra un paio di abiti degli anni trenta di impeccabile manifattura che fanno da introduzione alla storia della moda italiana. Una moda, la cui innovazione e modernità si fanno conoscere al mondo durante gli anni della ricostruzione e dei benefici degli aiuti americani sotto l’ombrello del piano Marshall. Infatti, dopo i vari tentativi e campagne del fascismo per creare e lanciare una moda nazionale (il fascismo aveva infatti ideato delle etichette e certificati di  garanzia che dovevano marcare l’italianità del prodotto come mostrano i due abiti esibiti al V & A) è con il dopoguerra che l’Italia riesce a rilanciarsi come paese “moderno” riuscendo a trasmettere le sue eccellenze nelle arti, nella moda e il design etc. È un graduale cammino questo che tende ad un processo di liberazione del pittoresco e folcloristico da parte di chi credeva nel nuovo e per mettersi alla pari con altri paesi europei venendo a far parte del dialogo transnazionale sulla modernità. Alla graduale riconfigurazione di spazi e architettura urbana e nuovi processi della visione che vedono nella moda uno dei veicoli più importanti per la ricostruzione economica del paese e anche al suo tentativo di recuperare una dignità perduta e offuscata dalla dittatura fascista, da una lacerante guerra civile e dal conflitto mondiale. L’Italia sembra dunque rinascere e ancora una volta fare leva sulla bellezza delle sue città e della capacità creativa ed etica del lavoro. Uno sguardo attento, però, potrà rintracciare la connivenza di alcuni elementi di continuità con il passato come anche di rottura da questo, la cui dinamica complessa segnerà il farsi dell’Italia della prima repubblica.

sala

Fashion show in Sala Bianca, 1955. Foto: Giorgini Archive

L’allestimento della mostra che ripercorre lo scintillio della Sala Bianca e la Firenze rinascimentale e la parte su Roma e la Hollywood sul Tevere è squisitamente reso dall’importanza della sartoria e la manualità italiana così elogiata dai consumatori, visitatori e giornalisti stranieri. Il ruolo della sartoria e della sartoriali in generale si materializza nella squisitezza degli abiti di Simonetta, delle Sorelle Fontana, di Gattinoni, di Irene Galitzine, le linee sinuose che mettono in risalto la femminilità, le stoffe sontuose dai colori vivaci che sottolineano eleganza e audacia o nel caso di Pucci e le sue fantasie, modernità e dinamismo. Insieme agli abiti, si possono osservare esemplari degli inviti di Giorgini alle sue sfilate e ai suoi party memorabili che testimoniano delle sue grandi capacità di PR, una professione che in Italia era ancora sconosciuta. La passerella di Firenze sottolinea il grande potere della moda di comunicare sogni, aspirazioni, stili di vita e bellezza. Queste sfilate sono da considerarsi le progenitrici delle nostre fashion weeks che sono delle grandi operazioni mediatiche, di marketing e comunicazione oltre naturalmente a delle spettacolari performances. Le sfilate di moda che raggruppano varie sartorie e nello stesso tempo si offrono in spazi di architettura urbana che si aggiunge a quelle per un pubblico più ristretto delle sartorie, spettacolarizzano una esperienza e allo stesso tempo rendono quell’esperienza memorabile. È così infatti che si esprimono i giornalisti stranieri che con la moda si avvicinano alla cultura italiana. L’Italia e i suoi manufatti cominciano a popolare le pagine delle riviste di moda degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e di altri paesi europei. Ed è grazie alla moda che l’idea di Italian Style prende corpo. Con un abito o una camicetta di Emilio Pucci, la borsetta di Gucci, Ferragamo o Fendi, si indossa anche una idea e lo stile che si attribuisce a un paese. 

La mostra infatti sottolinea insieme alla presenza degli abiti e accessori la plurima identità dell’Italia, della sua storia e tradizioni che si esprimono attraverso le sue città e capitali della moda. Da Firenze e dalla Sala Bianca, si passa a Roma e alla dolce vita che caratterizza gli anni del boom. Nella sala due grandi schermi proiettano immagini di film iconici (Vacanze Romane, La Contessa Scalza, Cleopatra, La dolce vita) che hanno avuto Roma come protagonista. Gli attori, da Elizabeth Taylor (Cleopatra) a Audrey Hepburn (Vacanze Romane), ad Ava Gardner (La Contessa scalza) ad Anita Ekberg e Marcello Mastroianni (La dolce vita) hanno incarnato quegli anni in cui l’Italia costruiva una delle sue immagini più attraenti e che persistono fino ai nostri giorni. È durante questi anni (1950/60) che si crea uno stretto rapporto tra case di moda, cinema, costumisti in una sinergia profonda. Nella stessa stanza in cui si possono ammirare Pucci e gli abiti di Irene Galitzine, Gattinoni, Schubert, brillano anche i diamanti e gli smeraldi della Casa Bulgari, un regalo di Richard Burton a Liz Taylor che li amava particolarmente. Bulgari è lo sponsor principale della mostra. 

La sartoria italiana e la moda in generale non sono però unicamente territorio femminile, anzi. Così alla variegata geografia della moda italiana si aggiunge la grande tradizione della sartoria napoletana rappresentata soprattutto da Rubinacci. Del resto proprio questa stagione ha visto trionfare la sartoriali napoletana con i vestiti molto chic di Attolini, indossati da Toni Servillo nel film di Paolo Sorrentino La Grande bellezza (2013).

foto 2

Valentino posing with models, 1967, Foto: courtesy The Art Archive, Mondadori Portfolio, Marisa Rastellini

Nel lasciare gli anni della dolce vita si passa agli anni delle proteste politiche e giovanili e ai cosiddetti anni di piombo. Dagli anni Settanta in poi sarà Milano ad affermarsi come capitale della moda, la moda giovane e le boutique di Elio Fiorucci, le innovazioni del design e delle sfilate di Walter Albini, la trasformazione industriale che va dalla sartoria al pret-a-porter e la nascita ed affermarsi della figura dello stilista. Milano trionfa anche per la sua storia e robuste infrastrutture nel campo dell’editoria, del design, del tessile (Como e Biella), dei grandi magazzini come la Rinascente, le sue grandi fiere ed esposizioni e anche la sua tradizione delle sartorie come quelle di Biki, Germana Maruccelli, Raffaella Curiel, Jole Veneziani e altre. Milano è anche il simbolo della grande trasformazione industriale proprio durante gli anni del boom in cui milioni di Italiani dal sud abbandonano le campagne per lavorare nelle fabbriche del nord tra cui anche quelle nel tessile. Infatti, il visitatore si accorgerà di essere accompagnato da alcuni rumori nel sottofondo. Sono i rumori dei macchinari della fabbrica e lo sviluppo industriale nel campo del tessile, filati e moda pronta. 

Gli stilisti stessi come Armani o Versace stabiliranno un rapporto stretto con le aziende tessili a cui commissioneranno le loro richieste e comunicheranno le loro idee. Qui sono rappresentate le industrie di Prato ma anche un'industria Napier che diventa molto competitiva sul mercato dopo aver acquistato molti macchinari e archivi da ditte francesi. Gli anni Ottanta e Novanta, oltre allo stilismo saranno contraddistinti dalla formazione di grosse brands come Prada e Dolce & Gabbana che sfonderanno nel mercato internazionale. Gli anni ottanta vedono anche il manifestarsi di concetti dissacratori proprio delle brands e del sistema moda come fa Moschino dall’ interno e organizzando le sue sfilate giocose e irriverenti. Allo stesso tempo ci sono le sperimentazioni di Romeo Gigli o le architetture di Gianfranco Ferré, gli stampati esuberanti di Cavalli, le sperimentazioni della forma e delle pieghe come fa Krizia. Nella sala finale c’è una passerella in cui possono ammirarsi abiti della couture dei nomi degli stilisti e brand sopraelencate insieme alla sofisticata creatività di Giambattista Valli, e l’eleganza squisita di Valentino.  

Una mostra questa, il cui grande merito è quello di offrire una piattaforma per riflettere sulla storia della moda in Italia. Una storia da riscriversi e che possa porre le basi per continuare a lavorare a scoprire molti nuovi territori del nostro patrimonio.  E forse contribuire a creare le condizioni affinché la creatività italiana possa continuare su nuove basi, nuove alleanze nazionali e internazionali per potenziare e in alcuni casi salvare uno dei beni culturali più importanti del nostro paese e della nostra identità: la moda. L’industria, oggi più che mai deve collaborare con le istituzioni e le forze della cultura per trovare risposte nuove a problemi nuovi. Per esempio, come sposare e preservare la manualità, il saper fare con l’attenzione ai dettagli (tanto invidiata dagli stranieri) insieme alla tecnologia e la ricerca in vari settori del design? Può essere questa una delle sfide per il futuro?


Eugenia Paulicelli *Eugenia Paulicelli, Professor of Italian, Comparative Literature and Women’s Studies, Queens College and Graduate Center, The City University of New York

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Eugenia Paulicelli

Eugenia Paulicelli

Scrivere è stata la mia passione da sempre, il mio rifugio e anche uno strumento per viaggiare ed esplorare. Questa passione mi ha portata in America dalla Puglia dove sono nata. Sono Professore ordinario al Queens College e al Graduate Center, City University of New York, direttore del programma di Fashion Studies che ho fondato. Insegno cinema, letteratura e arti visive, Rinascimento, women’s studies, moda, cultura del made in Italy. Libri recenti: Italian Style: Fashion & Film (2016); Fashion is a Serious Business (in Italia, La Moda é una Cosa Seria). Occuparsi dell’Italia a New York significa poter portare con sé la propria casa: la lingua e la cultura. È come andare restando, un sogno di libertà che racconto con la mia scrittura e i miei progetti.

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