“Che facciamo, piazzetta?”.
“Boh sì”.
Claudia passa la punta del cucchiaio di legno nel sugo di pomodoro rosso e corposo. E’ la passata del pacco da giù, mandato a Salvatore dai suoi genitori a Matera. Lo scatolone di cartone ha varcato le porte di Bologna ieri mattina alle cinque, nell’ombra del retro di un camion guidato da un certo Peppino. Di pacchi da giù Peppino ne doveva consegnare una mezza dozzina ai vari fuorisede materani sparsi per le vie della città emiliana.
Dentro al pacco ci sono bottiglie di birra riempite fino all’orlo di passata, imbottigliata dai nonni di Salvo che vivono nell’altopiano materano. C’è un sacco di tarallini del fornaio che sta vicino a casa dei genitori, scatole di tonno e di fagioli, olive raccolte dai nonni, amaretti e cantucci (chiamati in Basilicata friselle) fatti con le mandorle degli alberi della Murgia.
I ragazzi hanno svuotato due bottiglie di sugo nel soffritto. L’acqua si sta riscaldando, non è ancora stata salata.
“Portiamo la chitarra?”.
“Sì”.
“Poi prendiamo due bocce di freschello qui dal paki?”.
“Anche un Lambruschino secondo me”.
“L’acqua bolle”.
Salvo butta una manciata di sale grosso nel pentolone.

Virginia sfila un blister dal marsupio con dentro due cime di marijuana, appiccicose, forse un po’ troppo. Ne stacca due pezzi che incastra nei denti metallici del grinder. Chiude lo strumento con il tappo e macina le foglie.
“Ma pinzi ancora da Jimmy?”.
“Sì. C’è solo lui”.
“Dobbiamo trovare un altro modo, questa roba è deleteria”.
“Lo so, lo so”.
“Ma in che senso?”.
“Boh vez è palesemente intinta in qualcosa. E’ chimicazza, fa schifo. Chissà che cazzo ci fumiamo, guarda come si appiccica”.
“Ho sentito che Emi compra da un altro tipo, potremmo provare”.
“Dovremmo farci due piantine, raga”.
“Mi metti un timer per la pasta, Samu?”.
“A quanto?”.
“Boh qua dice dieci, fai otto”.
Virginia arrotola un rettangolo di cartoncino e lo infila nella cartina lunga, colma di tabacco sfilacciato e ganja. Lecca per chiudere, strappa l’estremità e accende lo spinello.
“Facciamo un quadripass”.
Susanna fa quattro tiri e la passa a Claudia, che aspira profondamente e trattiene il fumo nei polmoni per qualche istante, così la botta sale prima.
“È pronto ragazzi”.
Samuele, Virginia e Salvo si siedono attorno al tavolo della cucina. E’ una stanza dal soffitto alto, i muri senza colore e le piastrelle larghe e bianche sul pavimento. Claudia è in terrazzo. Spegne la sigaretta nel posacenere colmo di mozziconi impregnati di acqua piovana.
Il terrazzino della cucina, che occupa uno spazio sospeso nell’aria di circa due metri quadrati, ha il pavimento di spesse piastrelle di vetro inciso a quadrati e dà su un piccolissimo cortile interno del palazzo. Guardando giù si vede a piano terra un rettangolo piastrellato con stenditoi e una vecchia auto in miniatura di plastica per bambini, macchiata da una poltiglia di pioggia e polvere. Si innalzano da tutti e quattro i lati del cortile circoscritto i muri sporchi e scrostati, intervallati da finestre e scuri verdoni chiusi. Due piani sotto casa di Salvo ci sta una famiglia proveniente dal sud dell’Asia, almeno così evincono i ragazzi dagli effluvi pesanti di spezie e odori che entrando a fiotti dalle finestre allagano le stanze da letto e la cucina. Coriandolo, cumino e cipolla.
L’appartamento è in via Mazzini, a pochi passi da Porta Maggiore, una delle dodici antiche entrate della città. Salvo ha due coinquilini universitari.
“Comunque, per riprendere il discorso di prima… mi sto rendendo conto, poi ripensando anche a Nietzsche che faceva degli sfasi su questo – che diceva appunto, cioè tutta l’etica dell’oltreuomo e ‘ste robe qui, del dionisiaco e dell’apollineo – che per la morale cristiana siamo abituati a guardare le cose in un modo che devi soffrire. Per avere un piacere devi prima passare da una sofferenza, da un dolore, quando in realtà è una merda. Il fatto che funzioni così è una merda”.

La pasta scotta.
“Bisogna avere rispetto per chi soffre, ma non bisogna alzarlo a una qualità virtuosa, che sembra che bisogni padroneggiare il saper soffrire per raggiungere qualcosa. Nessuno vuole soffrire, ed è giusto che sia così. Dovremmo cercare di allontanarci da questo, cercare di vivere la vita per quello che si è, per quello che si vuole fare e non appunto per questa estetica del dolore”.
Un vapore sottile scaturisce dai maccheroni rivestiti di rosso. Virginia ne infilza uno, poi due, poi tre e se li ficca in bocca.
“Eh ma il problema è che per il sistema in cui ci troviamo, per tutte le cose che vuoi fare ci sono sempre dei paletti che ti distolgono molto da questo concetto che hai spiegato. Alla fine in qualsiasi ambito in cui ti inserisci c’è sempre questo velo, queste tappe del cazzo per ottenere quel che vuoi. Pero è fatto in modo che tu, pur essendo consapevole di ciò, ti ritrovi a dover fare cose che ti occupano il pensiero e le energie per poi arrivare a un punto in cui sei talmente legato che non esci più dal loop. Perché poi ti sembra che il mondo funzioni così e basta”.
Samu deglutisce e beve un sorso di freschello, una bottiglia semi vuota rimasta dall’altra sera, poi risponde.
“Anche per lo studio, che dovrebbe essere qualcosa che ti apre la mente e ti mette nella condizioni di riflettere su alcune cose, in realtà è diventato anche quello solo una macchina di produzione. Quindi tu ti inserisci, studi, però in relaltà stai studiando per un fine che è più grande di te, che vabbè è il denaro, l’efficienza”.
“E’ la società della tecnica, è quello. Tu perdi di vista lo scopo. Anzi il tuo mezzo, che sarebbe la tecnica, diventa poi il tuo scopo”.
“Ma infatti raga, bona, andiamo a vivere in un ecovillaggio”.
“Ah oh, a sto punto…”.
“Sentite fricchettoni a che ora ci becchiamo con gli altri?”.
“Boh le dieci e mezza, undici… Dopo sentiamo anche da loro”.
Si finisce di mangiare in silenzio.
“Facciamo un’altra cannetta poi usciamo?”.

Un’ora dopo i ragazzi arrivano in bici sotto al Portico dei Servi. La piazza è vuota, e guardando verso porta la silhouette di una coppia adulta che passeggia sotto mille archi di pietra si rispecchia nel pavimento lucido di Strada Maggiore pedonale. Si siedono per terra e rollano una sigaretta. Stappano il vino, tirano su un’altra canna. Nel frattempo arrivano gli altri.
“Tiriamo fuori ‘sta chitarra dai”.
Samu arpeggia un si bemolle minore con le sue unghie lunghe da chitarrista, le voci si uniscono in un coro un poco brillo.
“Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore
Più non arrossii nel rubare l’amore
Dal momento che Inverno mi convinse che Dio
Non sarebbe arrossito rubandomi il mio
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino
Non avevano leggi per punire un blasfemo
Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte
Mi cercarono l’anima a forza di botte
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo
Lo costrinse a viaggiare una vita da scemo
Nel giardino incantato lo costrinse a sognare
A ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male…”
“Il boom del regno animale dice… F-O”.
“Fenicottero!”.
“Furetto”.
“No”.
“Falco!”.
“No, bello però!”
“Facocero”.
“No raga”.
“Ma cos’è…”.
“Fagiano!”.
“Fagiano!”.
Claudia passa la canna a Samu, che in cambio le tende la chitarra.
“E mo? Che faccio?”.
“Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura…”.
“No ti prego basta! Sempre quella”.
“Adesso faccio il Suonatore Jones e nessuno mi rompe il cazzo”.
“In un vortice di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Jenny
In un ballo di tanti anni fa
Sentivo la mia terra
Vibrare di suoni, era il mio cuore
E allora perché coltivarla ancora
Come pensarla migliore
Libertà l’ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato
Libertà l’ho vista svegliarsi
Ogni volta che ho suonato
Per un fruscio di ragazze
A un ballo
Per un compagno ubriaco…”.
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