Il ciclo della primavera giunge alla sua apoteosi con i riti della Settimana Santa, che oscilla a seconda la variazione dei cicli lunari e che rappresenta in chiave rituale e liturgica il miracoloso risveglio della natura. Il preludio della settimana è la Domenica delle Palme con il rito dell’entrata di Cristo a Gerusalemme, rappresentato dal prete più giovane che benedice il popolo a cavallo di un asinello, seguito dal corteo di fedeli che innalza una selva di rami di ulivo e di palme.
Il momento successivo è rappresentato dal Giovedì Santo con la secolare tradizione della visita ai sepulcri e la preparazione fortemente simbolica del lavureddu, piatto di germogli di orzo, lattuga e finocchio, che interpreta in chiave cristiana il mito greco del Giardino di Adone. Rito emotivamente vissuto è pure l’Ultima Cena con il lavaggio dei piedi e l’offerta ai poveri, raffiguranti i dodici apostoli, di lattuga, arance e finocchi, simboli di origine agraria, e dei “pani di cena”, lucidati con uovo.
Altri simboli tesi a propiziare e rigenerare il ciclo vegetale, sono le cannatedde di Pasqua, simbolo cosmogonico dell’uovo primigenio, e l’agnello pasquale di pasta reale con lo stendardo rosso. Altro residuo rituale ancestrale era l’uso di battere il letto con un sarmento a nodi dispari, per scacciare il diavolo dal letto, al scioglimento delle campane che avveniva al mezzodì del Sabato Santo.
Partecipazione attiva e realmente vissuta nel lutto e nel pianto, oltre alla veglia funebre dei “sepulcri”, è la visita al Calvario al ritmo di cirrialori e trocculi e dopo la scinnuta del Cristo il lunghissimo corteo con i coppi di carta a proteggere il cero che dal Settecento si snodava fino a qualche anno fa davanti al littirino dietro gli stendardi delle numerose congregazioni e associazioni che distinguevano ceti e appartenenza.
Nella “Passione secondo il buon popolo”, come la chiamava l’etnologo Cocchiara, il dramma della morte e resurrezione ha il momento esaltante nell’incontru che si svolge pure in moltissimi paesi della Sicilia.

A Prizzi, più che per la spettacolarità della Passione, come nei Misteri di Trapani o nei quadri viventi di Marsala, il rito pasquale più originale e unico è lu ballu di li diavuli, che esprime con commossi applausi l’epifania del Cristo vincitore sulla morte del peccato attraverso simboli reali.
Così lo storico Pitrè descriveva il rito prizzese: “le stranissime figure sono dei giovani in sacchi e con maschere brutte e paurose”, “la Morte pronta a ferire addirittura orribile. Quando prende di mira qualcuno della folla, prima si getta per terra, poi di botto scaglia la saetta e fugge. I diavoli gongolano di gioia, si lanciano addosso alla preda e se la caricano sulle spalle come per portarsela all’inferno. Immaginiamoci la ilarità degli spettatori, la confusione del minacciato, le pazzie dei mascherati”.
Il dramma si sviluppa in intensa partecipazione rituale rivissuta nella frenesia della gioia dell’incontru arrinisciutu. Evidente il sincretismo del rito nel manto nero che cade, negli angeli splendenti con corazza e spada come legionari romani, nelle tute rosse e gialle di demoni e morte. Nell’attesa dello svelamento della Resurrezione sono loro a tenere il campo in un impazzito turbinio tra i due simulacri, i tre diavoli e la morte che scorazzano in una danza forsennata, come a volere impedire l’incontro e la salvezza generale, per la quale rapiscono i peccatori per farsi sborsare l’obolo.