Ci sono quelli che fanno delle grandi camminate. Sono quelli che non ne vogliono mezza di correre, magari un po’ per età e un po’ per pigrizia, e allora camminano. Dicendo: “Ou, l’importante è muoversi sempre”. Adesso poi, con gli Iwatch e altre diavolerie varie al polso si può anche controllare quanti passi hai fatto.
E se non fai il numero di passi che l’orologio ha deciso, il dispositivo emette un drin e ti ordina secco: “Alzati in piedi!”. Una specie di negriero che scudiscia gli schiavi fannulloni. I camminatori hanno tanti passi nel loro repertorio: il passo elastico, il passo deciso, il passo strascicato, il passo da montagna, quello da mare, sulla spiaggia (con l’ahi! incorporato quando pesti una conchiglia rotta), il passo lungo e ben disteso (quello quando ti mandano via e ti dicono: “Giovane! Passi lunghi e ben distesi!”).
Ma c’è un passo che uccide tutti. Che ammazza qualunque maratoneta, anche professionista, un passo che ti stronca, che ti sfianca, che ti sega le gambe a metà, che ti fa venir su anche su due marroni spaziali: il passo da museo. Dal Moma di New York ai Musei vaticani, passando per mostre e mostrine varie. Il passo da museo (ora che riaprono pian piano dopo il ciclone del virus) mieterà di nuovo milioni di vittime ogni giorno nel mondo. È quel passo lento, balbettato, contrassegnato da duecento stop e ripartenze continue, che potrebbe sfrantare un toro.

March 18, 2018–August 19, 2018. IN2396.90. Roma. Photograph by Martin Seck.
Alla fine della giornata chi è stato in un museo è da buttar via. Va a letto sussurrando quel: “Che male alle gambe” che è sintomatico del danno provocato. La gamba, nel passo da museo, non regge nessun tipo di allenamento. Anche uno allenato, uno tipo Cristiano Ronaldo per dire, dopo un pomeriggio in un museo (ammesso che ci vada), è una cotoletta da buttar via. In alcune squadre italiane, a dire il vero, ci sono alcuni giocatori che hanno il passo da museo anche quando giocano e quelli sono gli unici che dopo stanno bene.
Nei musei si vede questa gente deambulante, che caracolla, si ferma, riparte. Di solito sono coppie: lui alto, allampanato, in giacca di tweed, scarpa inglese, pantalone scozzese, pipa spenta in bocca, lei piccolina, vestita coloratissima, con una borsa estrosa, il cappellino con veletta e l’espressione incazzata fissa, da nausea, come se non gli sia piaciuto mai nessun museo al mondo. Anche loro, seppur così “atteggiosi” e impostati, alla sera sono dei rottami. Perché il passo da museo ucciderebbe chiunque.

Se uno fa venti chilometri di passeggiata e a passo normale, magari anche con discese e salite, è meno stanco. In un museo ha fatto in tutto un centinaio di metri, ma alla fine è a bocconi. Sottoprodotti del passo da museo sono il passo da libreria o quello da centro commerciale. Quello da libreria è sfiancante uguale, ma è più breve perché un libro lo cerchi e ci ronzi intorno massimo una decina di minuti. Mentre quello da centro commerciale è altrettanto malefico.
È tutto un andare e un fermarsi a cercare i prodotti negli scaffali, trascinandosi dietro carrelli stracolmi per poi arrivare alle casse dove aspetti il tuo turno (davanti c’è sempre uno che scarica sul banco il fabbisogno di vent’anni, in vista di una guerra nucleare). Si vede gente appoggiata e stravaccata sui bordi dei carrelli che aspetta. Hanno già le gambe distrutte e non vedono l’ora di arrivare a sedersi in macchina. Il passo da museo ha fatto anche vittime illustri in passato.
Qualche anno fa ero al museo Picasso a Barcellona, in compagnia di Francesco Guccini. Dopo un deambulare di un’oretta, lo perdo di vista e a un certo punto lo trovo, a metà percorso, seduto su uno di quei divanetti che ci sono al centro delle sale, distrutto, affranto, con l’espressione persa nel vuoto. Quando mi vede mi fa con sguardo mesto e con un filo di voce: “Facciamo quelli che Picasso l’han già visto?”. Non ce la faceva più e voleva andar via. Il passo da museo aveva colpito ancora.