Il digitale ha integrato la vita reale, offrendo strumenti per migliorarla e talora è giunta anche a sostituirsi ad essa. Nel corso degli anni, lo ha fatto secondo l’utilità o la convenienza di ogni settore. Gradualmente, in base alle invenzioni del momento. Ora è la minaccia del virus ad imporre senza sosta adeguamenti e correzioni di rotta.
Il pericolo del contagio ha obbligato tutti al distanziamento, rendendo inevitabili soluzioni tecniche per rimanere in contatto senza vedersi di persona. Tendenze già presenti nella società hanno subìto un’accelerazione. La ricaduta più pesante si è manifestata sulle relazioni umane. Vietate o limitate quelle dirette, le altre trasferite in blocco sulle piattaforme del web.
Era necessario. Siamo condizionati dal pericolo del contagio e dalla paura di rimanerne vittime. L’insidia è ovunque, nascosta e sempre in agguato: mutevole nelle infinite varianti di cui sembra capace. Pronta a cambiare, assumere nuove forme, sfruttando qualsiasi margine che sfugga alle contromisure della scienza in affannoso ritardo. L’isolamento e le precauzioni sono indispensabili.

Insieme alle persone, a fare le spese di questo cambiamento sono innanzitutto i luoghi della socialità diffusa, i posti dove nascono conoscenze, si sviluppano contatti e si intrattengono relazioni. Tutto quello che di solito avviene nel lavoro, nell’istruzione, nelle manifestazioni culturali, nel turismo e nello svago. Le prime a svuotarsi sono state le piazze e le strade e così è cambiato il volto esteriore delle città. È dilagato il silenzio, lo spazio si è allargato. Poi, tutti gli altri luoghi sono stati investiti dal mutamento.
La trasformazione ha colpito l’effimero e il superfluo, componenti rinunciabili della vita sociale di fronte a minacce gravi. Però la bufera ha avvolto centri nevralgici: mostre, teatri e musei; fabbriche, uffici, stabilimenti industriali diventati pericolosi e insicuri, fonti di contagio e morte, da che erano pulsanti e vitali. Meglio chiuderli, o almeno regolarne l’uso, rendendo rarefatta l’aria. Gli spazi, vuoti di persone e cose, ammutoliscono, collassano ed evaporano.
Rinunciare ai contatti diretti tra persone è tuttora imprescindibile se si vuole contrastare il virus. C’è un’implicazione sorprendente in questo atteggiamento: le chiusure non servono unicamente a proteggere la propria esistenza. Sembrerebbe egoistico il gesto di isolarsi, chiudersi agli altri. Invece è impossibile proteggere sé stessi senza tutelare contemporaneamente l’altro. Lo “stare a distanza” assume un significato altruistico. La solidarietà si trasforma: era vicinanza e condivisione, diventa lontananza e distacco. Il silenzio dei gesti come forma radicale di generosità.

Fronteggiare il virus ha richiesto adattamenti, cambiamenti di abitudini, lo stravolgimento di ritmi e usanze, qualche volta un cambio di mentalità. Ne sono state coinvolte tutte le realtà: scuola, istruzione, formazione, lavoro, cultura e divertimento. Insufficienti i vecchi schemi. Servono altri modelli di comportamento. In ogni campo, è alla tecnologia digitale che ci si affida per sopravvivere.
La perdita più intensa però, sulla quale riflettere in vista del prossimo futuro, riguarda la componente principale delle relazioni umane, l’empatia. A definire il prezzo finale della lotta al virus non è solo l’economia, con le sue tragiche conseguenze: disoccupazione, impoverimento. È anche la perdita della socialità come valore trainante.
C’è un’ambivalenza di fondo che attraversa questa fase, anche nei rimedi. Il negativo si intreccia con il positivo. Basta guardarsi intorno. La pandemia ha spinto a cercare strade alternative perché la vita non può fermarsi. Soluzioni innovative per svolgere i compiti di prima in altro modo, rispettando le regole. Non era facile, lo sforzo ha prodotto danni, ma ha anche aperto orizzonti. Il domani si annuncia ugualmente impegnativo: si dovranno eliminare i danni, conservando però il buono emerso nella tragedia. Serviranno a questo proposito idee chiare, capacità di leggere il presente.
Nel campo dell’istruzione, uno dei più cruciali e compromessi dalla pandemia, il doppio volto del digitale è evidente. Il campo preferibile di applicazione della didattica a distanza sembra essere quello degli “ambiti strutturati”, frequentati da soggetti che, per età ed esperienze, abbiano acquisito un certo livello di apprendimento.

Nelle università o nelle scuole di specializzazione, per esempio, questa soluzione è una risorsa per superare i limiti dei “numeri chiusi” fissati dalla scarsità di strutture e personale. Ma non è solo questo. Il digitale permette di sperimentare un modo differente di attuare il confronto studente-insegnante e persino di insegnare una volta cambiati i contenuti: la Dad non può essere un surrogato, inevitabilmente inferiore, della lezione in presenza.
È altrettanto evidente invece che, in tutti gli altri contesti scolastici, il digitale, utile in qualche caso, non è uno strumento generalizzabile, perché presenta inconvenienti, contrasta con le caratteristiche dell’attività formativa. Inaridisce l’apprendimento, esclude il rapporto personale studente-insegnante. Gli studenti hanno protestato in strada contro questa metodologia reclamando il rientro in classe, il ritorno alle lezioni in presenza. Significativa la loro traduzione dell’acronimo Dad, diventato sui cartelli sinonimo di “Distanti, Analfabeti, Depressi”.
Nell’uso della didattica sostitutiva, la scarsa digitalizzazione del paese ha un peso importante, perché non tutte le famiglie hanno mezzi adeguati e la connessione non è uniforme. Ci si deve arrangiare per seguire le lezioni da casa, spesso in competizione con fratelli e sorelle, o con i genitori al lavoro da remoto, in spazi angusti. Ma non è solo questo. La filosofia di fondo della didattica a distanza è inadeguata ai livelli iniziali dell’istruzione.
Il mondo della scuola riveste un ruolo di primo piano ed è troppo trascurato. Si trascura l’importanza dell’educazione nello sviluppo del senso civico. Però il problema è più generale. La distanza tra le persone ha accentuato il bisogno di comunicare, per la necessità di supplire alla mancanza di contatti diretti. Il digitale è diventato la risorsa principale cui affidarsi per qualunque tipo di scambio verbale, e non solo. Mettersi davanti allo schermo del computer ed entrare in chat serve a tutto, non importa lo scopo e il momento della giornata. Colloquiare con i parenti, intrattenersi con gli amici, e molto altro: fare didattica, tenere conferenze, dibattere di problemi di lavoro. Persino l’impensabile fino a poco tempo fa, consulti sanitari, sedute di psicoterapia, udienze di tribunale.

Tutto bene allora? Meglio ora che le maglie si sono allargate e vi è la smisurata possibilità di mettersi in contatto con chiunque, a qualsiasi ora del giorno, a prescindere dal motivo? Non proprio, e non solo per le conseguenze fisiche. Stare seduti a lungo davanti allo schermo stanca. La necessità di mantenere costante l’attenzione è fonte di stress. Sono tanti gli inconvenienti per le energie fisiche e quelle mentali. Una ricerca della Stanford University in California, pubblicata sulla rivista Technology Mind and Behavior, ha scoperto il male misterioso che si annida in certe pratiche come la comunicazione via chat. Si chiama “sovraccarico non verbale”.
Di cosa si tratta? Volti immobili, sguardi fissi sullo schermo, immagini che ritraggono parte del corpo, tono monocorde, lessico limitato. Elementi con le stesse caratteristiche, la rigidità dei comportamenti e la fissità delle espressioni. La conseguenza è la creazione di uno scenario artificioso, estraneo alla normalità che è fatta di tante cose, espressioni verbali e non. Corpi in movimento, variazioni degli atteggiamenti, mutamenti di attenzione. Realtà ricche di sfumature. La molteplicità piuttosto che la monotona uniformità.

Il futuro che vorremmo avrà almeno questo di positivo, non sarà imposto dall’esterno per l’obbligo di rispettare le regole Covid. Le soluzioni dovranno ispirarsi liberamente a ragioni di opportunità. Potremo scegliere ciò che è più adatto, senza vincoli, e non ci saranno sacrifici inutili.
Il punto di inizio difficilmente sarà un ritorno al passato come se nulla fosse accaduto nel frattempo. Costretti a rispettare il distanziamento, ci siamo adeguati di conseguenza, facendocene una ragione. Non è stato tutto inutile. Per sopravvivere ci siamo spinti in avanti a cercare nuove strade. Lo sforzo potrebbe servire domani quando la tempesta sarà passata. Dovremo certo tener conto dei costi personali ed economici sopportati, e porre rimedio ai danni peggiori: le vite, impoverite dall’isolamento, avranno bisogno di ritrovarsi, ristabilire i contatti, ricucire i legami. Coltivare nuove speranze.
Servirà la riaggregazione di idee, pensieri, comportamenti, andati dispersi in questo tempo troppo lungo. Per ricomporre il quadro e progettare il futuro possibile, non si potrà prescindere dal valore della presenza umana. In fondo, la tecnologia è anche in grado di tracciare il percorso più preciso e veloce per raggiungere la meta, ma in nessun viaggio può mancare una sorta di vagabondaggio, fatto di andirivieni e divagazioni. Sono i frammenti sparsi dell’esistenza a comporre il mosaico prezioso della realtà che attraversiamo.