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July 14, 2020
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Quando il termine “italo-americano” indica il peggio dei due mondi

Quando la comunità italiana in America esprime i suoi pregiudizi nei confronti degli afro-americani con lo stesso linguaggio usato contro i suoi stessi membri

Marcello CristobyMarcello Cristo
Quando il termine “italo-americano” indica il peggio dei due mondi

A print from 1903 by Louis Dalrymple published in the magazine, "Judge" that describes European immigrants, especially Italian immigrants, as rats and vermin. Un poster del 1903 in cui gli immigrati, soprattutto italiani, sono descritti come ratti e vermi...(New York Public Library Digital Collection)

Time: 5 mins read

In English

Qualche settimana fa, Ambra Avenia, una mia concittadina che collabora con il nostro giornale, ha scritto un articolo in cui ha cercato efficacemente di offrire la prospettiva di una persona bianca sui recenti tumulti razziali che stanno attraversando l’America.

Il pezzo ha ricevuto due commenti il secondo dei quali da un lettore italiano che ha criticato l’autrice definendo l’articolo “ridicolo” e chiedendosi retoricamente perché i neri d’America sono il gruppo etnico che, più di ogni altro, finisce sempre nei guai con le forze dell’ordine.

A giudicare dalla grossolanità dell’intervento, inizialmente ho sperato che il nostro lettore risiedesse in Italia da dove sarebbe, comprensibilmente, più difficile capire appieno la situazione della comunità afro-americana qui negli USA. Purtroppo invece, a giudicare da un passaggio del suo commento, temo che il signore in questione viva qui in America il che rende ancora più deprimente la sostanza di quanto ha scritto.

“In primo luogo ti dovresti chiedere come è che sta gente finisce coinvolta con la polizia – dice il commento – Come finisci a menarti, spararti, litigare con un poliziotto!!!! Se tu la mattina ti alzi, fai colazione, ti vesti ed esci di casa per andare al lavoro, scuola, università, chiesa, palestra…… insomma per i fatti tuoi, come ti trovi immischiato con i poliziotti ???? Perché ?????”.

Una domanda che non tiene conto del fatto che il problema è esattamente questo: e cioè che, troppo spesso, molte di queste interazioni tra neri e poliziotti sono completamente immotivate e ingiustificate. In altre parole, accadono proprio mentre “sta gente” se ne sta per i fatti suoi ed è francamente incredibile che una persona che viva in America non se ne sia ancora resa conto, soprattutto considerando la visibilità di prima mano che molti di questi incidenti hanno acquisito nell’era delle telecamere portatili e dell’Internet.(incidenti come questo; o questo; o questo; o quest’altro…).

La seconda parte dell’intervento è ancora più ricca di punteggiatura d’enfasi e povera di arguzia intellettuale:

“Gli afro-americani sono qui da circa tre secoli – ci informa il lettore – Sono arrivati ben prima degli italiani o degli irlandesi o degli ebrei…. Ebbene la maggior parte di loro non ha combinato nulla!!! Sono la parte più emarginata della popolazione, quella più povera, quella più violenta (lo dicono i numeri!!!), meno istruita, vivono in squallidi ghetti. Perché????”

Perché?!… Ma c’è davvero bisogno di chiederselo??…

Incredibilmente, questo signore paragona le circostanze che hanno portato i neri in America a quelle di questi altri gruppi etnici. Un capolavoro di revisionismo storico che, convenientemente, sorvola sul “dettaglio” che, mentre italiani, irlandesi ed ebrei sono arrivati qui di loro spontanea volontà e da uomini poveri ma liberi, gli afro-americani sono stati catturati, torturati, venduti e comprati come bestie, ridotti in schiavitù e costretti ad una vita di lavori forzati per secoli!

Nella foto, uno schiavo afro-americano

E anche se la schiavitù è stata formalmente abolita dopo la guerra civile, il pezzo di carta che ratifica l’attuazione di una legge non cambia da un giorno all’altro la realtà delle interazioni sociali, le consuetudini e l’impalcatura culturale di un popolo.

L’abolizione della schiavitù non l’ha magicamente cancellata ma l’ha solo trasformata in un altro secolo e mezzo di discriminazione sotterranea più o meno esplicita e violenta, in cui la comunità nera è stata puntualmente relegata ad un ruolo di cittadinanza di serie C in ogni aspetto della vita sociale.

Se in una corsa di cento metri piani uno degli atleti viene fatto partire cento metri dietro rispetto agli altri contendenti, quali possibilità può avere di ottenere un risultato paragonabile a quelli del resto dei corridori?

Non solo, ma quale motivazione e quale incentivo psicologico potrà mai avere questo sventurato atleta sapendo che, a prescindere dall’impegno e dalle ore di allenamento trascorse per migliorare la sua prestazione, non riuscirà mai a colmare lo svantaggio strutturale insito nella gara?

Similmente, un giovane di colore che cresce circondato dalla povertà, dalla mancanza di opportunità e dal disadattamento sociale che possibilità immediate ha di lasciarsi tutto questo alle spalle? Soprattutto sapendo che tutti i suoi sforzi di emancipazione si sbatteranno contro il muro invisibile della discriminazione strutturale? La miseria perpetua se stessa!

Un altro commento che riappare puntualmente ogni volta che si verifica uno di questi episodi di violenza gratuita da parte della polizia sugli afro-americani, è quello di mettere in evidenza i precedenti penali o il passato criminale degli interessati come se, in uno stato di diritto, il fatto di aver commesso un reato rappresentasse automaticamente un’autorizzazione da parte della polizia a farti fuori.

Nessuno mette in dubbio che chi commetta dei reati debba finire in galera, bianco o nero che sia. E nessuno mette in dubbio che la polizia abbia il diritto di rispondere con la violenza ad atti violenti perpetrati nei suoi confronti da criminali di ogni colore.

George Floyd o Eric Garner sono venuti in contatto con le forze dell’ordine, uno per aver spacciato una banconota falsa e l’altro per aver venduto sigarette di contrabbando. Ma i manifestanti che sono scesi in piazza per protestarne la morte non lo hanno fatto perché convinti che questi reati dovessero andare impuniti. Sono scesi in piazza perché, in un paese che vuole chiamarsi civile, non si può morire per strada per venti dollari e qualche sigaretta di contrabbando soprattutto per mano della polizia.

Andare in galera si. Morire no!

Photo by Johnny Silvercloud

L’ottusità espressa nel commento all’articolo inoltre ha due peculiarità: una frequente tra gli italiani negli USA; l’altra invece, tipicamente americana. La prima consiste nel voler paragonare l’esperienza storica dell’immigrazione italiana, con tutti i suoi drammi e le sue difficoltà, a quella dell’esodo forzato e alla riduzione in schiavitù dei neri d’America. Molto presente sui social media, questa tendenza a fare equivalenze che non stanno né in cielo né in terra, è un tentativo di enfatizzare le proprie sventure per sminuire quelle altrui; un modo per dire “Anche noi immigrati italiani abbiamo sofferto terribili discriminazioni e pregiudizi ma li abbiamo superati. Perché voi no?”. Porre una domanda in questi termini sottintende un’allusione implicita che è questa: “Se noi ce l’abbiamo fatta e voi no vuol dire che il problema siete voi”. In altre parole, è un tentativo di “cromosomizzare” il divario sociale, un “atto di accusa genetico”, un’attribuzione di colpa che afferma: i problemi dei neri sono da attribuire al fatto che sono neri. In altre parole, la definizione stessa di razzismo.

Non è un mistero che, anche tra la comunità italo-americana, le condizioni di disagio dei neri d’America vengano spesso attribuite a dei loro specifici “difetti morali”: la loro pigrizia endemica, il parassitismo che li spinge ad approfittare dei sussidi sociali piuttosto che a lavorare; la propensione alla criminalità. Paradossalmente, questi sono esattamente gli stessi vizi che, in Italia, caratterizzano i pregiudizi nei confronti dei meridionali che, a loro volta, costituiscono la maggior parte della diaspora italiana in America. Proprio quei “terroni” pigri e criminali che negli ultimi cento anni hanno lasciato l’Italia per cercare fortuna in altri paesi, cioè in altri contesti sociali e culturali, sono riusciti ad affermarsi con successo a dimostrazione che le circostanze ambientali giocano un ruolo fondamentale nel perpetuare quella presunta “inferiorità” che il nostro lettore invece, intende attribuire a fattori innati.

L’intervento infine, riflette anche un elemento peculiarmente americano: una differenza fondamentale tra due modi di vedere le diseguaglianze sociali in America. I conservatori credono che i poveri siano tali perché sono irresponsabili. I progressisti pensano invece che siano irresponsabili perché sono poveri.

Ovviamente la realtà non si presta a questi semplicistici dualismi che purtroppo rappresentano un tratto abbastanza tipico della cultura a stelle e strisce. E tuttavia vale la pena sottolineare una radicale differenza tra questi due approcci che, in qualche modo, influisce anche sulla possibilità di affrontare politicamente il problema della povertà.

Anche in questo caso infatti, affermare, come fanno i conservatori, che essa è legata ad una fondamentale irresponsabilità caratteriale degli individui, significa solidificarla in una condizione di immutabilità permanente dalla quale non esistono vie di uscita. Attribuire interamente il disadattamento sociale a presunti difetti morali come tendono a fare le culture di destra, significa implicitamente negare anche qualsiasi possibilità di redenzione futura e questo, a sua volta, rappresenta la negazione dell’idea stessa del “sogno americano”.

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Marcello Cristo

Marcello Cristo

Sono nato e cresciuto a Napoli dove, nella tradizione magno-greca della mia città, mi sono laureato in Filosofia. Vivo negli Stati Uniti con la mia famiglia da oltre vent'anni facendo la spola tra New York e la California. Dall’America, ho iniziato a collaborare con pubblicazioni italiane come Il Giornale di Indro Montanelli e La Gazzetta dello Sport di Candido Cannavò e poi con il quotidiano in lingua italiana degli Stati Uniti America Oggi per il quale ho lavorato come editor, opinionista e corrispondente dalla California. Nei ritagli di tempo, sto tentando disperatamente di insegnare ai miei figli il napoletano.

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