La sensazione più acuta è un’immersione in un mondo lontano e ben poco conosciuto, quello di alcuni piccoli paesi della Sardegna, in cui usanze e tradizioni sono rimaste quelle di una volta. Il tempo e lo spazio marcano una distanza rispetto ai suoni e alle abitudini di oggi. Anche la stessa lingua italiana ha una corposità dal forte sapore antico, e i dialoghi sono così arcaici da rispecchiare uno stile di vita inconsueto ai nostri occhi. Tutto rimanda ad un altrove che non ha smarrito la sua identità.
Grandi e piccoli, o solo i più sfortunati, sono spesso impegnati sui monti dietro le bestie o a far legna. Di questa stagione il pomeriggio è breve, arriva il freddo e bisogna fare in fretta per raccogliere qualcosa da usare per il fuoco e da mettere sullo spiedo, perché il pasto non sia solo minestra di acqua calda buona sola ad ammansire la pancia.
La giornata è fatta di soste in diversi siti di campagna: le vigne da perlustrare alla ricerca di grappoli abbandonati dai braccianti; gli uliveti dove notare olive mature; le siepi ricche di carciofini selvatici e cardi. Nelle aule ghiacce intanto gli scolari, gomiti piantati sui banchi, sono riversi sulle pagine: “La nebbia sugli irti colli, piovigginando sale”. Davvero c’è un posto dove la pioggia sale? Non qui certamente, mai vista.
Immagini delicate di altri tempi, una vita povera e minuta. Ma il mondo proprio di alcune zone dell’entro terra sardo, rivissuto dopo tanto tempo con occhi di bambini, non è per nulla triste: si prova allegria di fronte a piccoli avvenimenti quotidiani, legati spesso alla scoperta delle meraviglie della natura nelle diverse stagioni. Gli alberi in autunno sono carichi di corbezzoli rossi, e così turgidi e carnosi, da far innamorare.
Il merito di tanta vitalità ancora una volta è dei giovanissimi, pronti a stupirsi di fronte agli insegnamenti dei maestri di scuola oppure a incuriosirsi ascoltando i racconti degli anziani sui segreti della campagna che coincidono con quelli della loro vita stessa.
Alcune intraducibili espressioni sarde però custodiscono la sorpresa più stupefacente, la memoria di un’antichissima festa per celebrare il culto dei morti. Chiamata con diversi nomi nelle varie zone dell’isola, Is Animeddas e Is Panixeddas nel sud, Su ‘ene ‘e sas ànimas o Su Mortu Mortu nel nuorese, Su Prugadòriu in Ogliastra. Sempre ad indicare la stessa cosa, i “panini dei morti”, cioè piccoli regali per i defunti.
I bambini, vestiti da fantasmi, animano i paesi con il loro chiacchiericcio e girano di porta in porta chiedendo doni promettendo in cambio delle preghiere per ricordare chi ci ha lasciato. Una festa tra sacro e profano. I più furbetti sanno scegliere le mete migliori, andando dove in casa c’è buon odore.
E’ comune che, alle richieste dei piccoli, gli adulti si preparino per tempo e siano pronti a regalare i dolci tipici del periodo: pabassinas, ossus de mortu, pani de sapa, o appunto panixeddas, termine di origine spagnola che sta ad indicare piccole offerte. Oppure, proprio come per la moderna festa di Halloween (fantasmi, streghe, vampiri ovunque), svolgano un lavoro certosino sulle zucche trasformate in facce spiritate ed utilizzate per fare scherzi e spaventare i più piccoli. E’ tradizione che la tavola rimanga apparecchiata per i defunti tutta la notte e che le credenze siano tenute aperte perché i morti possano cibarsi.
Un rito antico quello sardo, dai tratti così simili alle usanze di oggi, e alle manifestazioni così varie di Halloween in molte culture europee ed occidentali: sfilate in costume, giochi di bambini e di adulti, zucche intagliate e sorridenti come simbologia macabra dell’occulto e della morte stessa. Costumi che si ripetono quasi allo stesso modo. Accidenti, la domanda ricattatoria “o dolcetto o scherzetto?” non è poi un’invenzione di importazione e anzi ci è persino familiare. Le distanze si annullano, dal passato al presente, da un luogo ad un altro.
In questi giorni, se suona il campanello di casa, possiamo chiudere gli occhi per un momento e lasciarci andare all’immaginazione: sono “piccole anime” che vengono a chiederci, con disincantata ingenuità, qualche piccolo dono e noi proviamo uno stupore che ci fa tornare bambini.