Perché lavoriamo? La risposta che viene comunemente data a questa domanda apparentemente banale è: per portare a casa “il pane”. In altre parole, lavoriamo per una necessità strumentale, quella di guadagnare abbastanza per poter assicurare a noi e ai nostri cari ciò che ci occorre per vivere bene. Ma è davvero tutto qui? Perché se così fosse, vorrebbe dire che, in caso disponessimo di risorse che ci permettessero di provvedere alle nostre necessità senza dover contare su un reddito da lavoro, preferiremmo non lavorare. Così la pensa, ad esempio, la teoria economica neoclassica nella sua formulazione più canonica, in cui il lavoro è un’attività che produce un costo psicologico, che deve quindi essere compensato in modo adeguato a far sì che la persona rinunci ad una certa quantità di tempo libero – quest’ultimo, invece, produttore ipso facto di benessere. Mentre invece sappiamo che poche cose possono distruggere lo stato di benessere psicologico soggettivo quanto una condizione di disoccupazione senza uscita, anche quando non è associata ad una condizione di povertà.
E’ indubbio che esistano molti lavori oggettivamente stressanti ed usuranti che molti, se potessero, non farebbero. Ma è questa una buona ragione per ritenere che il lavoro sia in sé una sorta di male necessario? In realtà, se consideriamo con un po’ più di attenzione ciò che sappiamo della natura umana dovremmo rispondere di no. Il tempo libero non è necessariamente una condizione beata, così come il lavoro non è necessariamente fonte di stress e di usura psicologica. Ciò che fa davvero la differenza in ambedue le sfere, tanto il lavoro quanto il tempo libero, è la capacità e la possibilità di dargli significato. Ciò che è davvero psicologicamente remunerativo è la consapevolezza di perseguire uno scopo che per noi è sensato e importante. Se c’è questa consapevolezza, siamo disposti a impegnarci senza fare calcoli, senza stare a guardare l’orologio e a volte senza nemmeno sentire la stanchezza. Entriamo, come spiega Csikszentmihalyi, in uno stato psicologico di “flusso” (flow), dominato da una dimensione soggettiva del tempo in cui ci diventa possibile rimanere attenti e concentrati per ore avendo la sensazione che siano passati anche soltanto pochi minuti. Anche molte attività che svolgiamo nel nostro tempo libero possono portarci in uno stato simile, ma il punto è che non è il tempo libero in sé a metterci in una condizione in cui perdiamo, felicemente, la cognizione del tempo, ma lo svolgere un’attività a cui attribuiamo sufficiente significato.
La condizione davvero privilegiata, dunque, è quella di poter svolgere un lavoro che davvero ci piace e ci appassiona – e come è evidente non è facile. Ciononostante, ancora una volta non ci sono lavori che sono oggettivamente soddisfacenti in sé e altri che non lo sono. Piuttosto, ci sono lavori di cui comprendiamo il significato (e siamo messi nella condizione per poterlo fare) oppure no. Tra i lavori più invidiati ci sono ad esempio quelli che hanno a che fare con le professioni creative. Chi non ha pensato almeno una volta quanto sarebbe bello essere uno scrittore o un artista di successo, il cui “lavoro” consiste nello starsene nel proprio studio a scrivere o a dipingere, seguendo la propria ispirazione? Ma chiunque abbia provato a fare davvero un lavoro di questo tipo sa benissimo quanto invece questo tipo di lavori apparentemente “piacevoli” possa essere angosciante e stressante: se per lavori meno creativi, ad esempio, il rispetto di una scadenza richiede più che altro di distribuire razionalmente il carico di attività, per lavori come questi la gestione psicologica e motivazionale della propria capacità creativa può essere estremamente complessa ed incerta: paradossalmente, proprio nei lavori in cui l’esperienza del senso è al centro della propria missione professionale, mantenerne il valore e l’autenticità può diventare particolarmente difficile.
Contrariamente a quello che possiamo pensare, la nostra natura umana non ci insegna che l’obiettivo vero della nostra vita sia passare il tempo su una spiaggia ai Caraibi con un cocktail in mano, fino alla fine dei nostri giorni. Ci piace pensarlo perché è un’idea semplice, e apparentemente rassicurante. Almeno finché resta un miraggio, una mera possibilità. Ma è anche la negazione di ciò che siamo davvero. Per sentirci bene con noi stessi abbiamo bisogno di costruire qualcosa in cui riconoscerci, e di cui essere orgogliosi. E’ a questo che dovremmo aspirare: a far sì che chiunque possa lavorare nella consapevolezza dell’importanza di ciò che fa, e nel rispetto per quel che fa. E di tutto questo non è bene ricordarsi tanto il Primo Maggio, ma in tutti gli altri giorni.