Gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sono stati anni cruciali nel complesso processo di modernizzazione dell’Italia. Durante questi anni le donne sono gradualmente emerse come protagoniste dei grandi cambiamenti e processi di emancipazione. Il cinema italiano ha spesso ricostruito ed evocato questi periodi di grandi trasformazioni, sociali, culturali ed economiche. Penso a un paio di film che ho rivisto recentemente e che fanno parte del materiale dei miei corsi alla CUNY.
In particolare vorrei riferirmi a due film tra loro molto diversi usciti a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, ma che hanno in comune uno sguardo attento alle donne da parte di un regista uomo. I film in questione sono Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni e Io la conoscevo bene (1964) diretto da Antonio Pietrangeli. Quest’ultimo ha fatto parte di una retrospettiva al Museum of Modern Art lo scorso dicembre e, ai primi di febbraio Criterion ha prodotto una versione sottotitolata, con vari extra interessanti che mettono in evidenza l’importanza di questo film per il cinema internazionale. Prima non esisteva una versione inglese del film di Pietrangeli, un autore importante per raccontare le contraddizioni sociali, i rapporti uomo/donna, le trasformazioni urbane e il mondo spesso vacuo e crudele della celebrity culture. Temi, questi, toccati profondamente da Antonioni nei suoi film a partire dal 1950 quando esce il suo primo lungometraggio Cronaca di un amore.
Le amiche, sempre per una riedizione della Criterion, uscirà quest’estate. A prima vista potrebbe sembrare un film di ambientazione frivola (il film si svolge in un atelier di alta moda a Torino). La protagonista, Clelia interpretata dalla ex modella Eleonora Rossi Drago, è una self-made woman di origini modeste che grazie al suo duro lavoro è diventata direttrice di una casa di moda con sede a Roma che deve aprire una succursale a Torino. Il film si apre con un tentato suicidio di Rosetta, una giovane donna parte di un gruppo di amiche in cui sarà coinvolta per caso anche Clelia. Infatti all’inizio del film Clelia si trova a scoprire Rosetta in una stanza d’albergo attigua alla sua dove ha tentato il suicidio. Il gruppo delle amiche è formato da bellissime donne eleganti che non lavorano, all’infuori di Nene (Valentina Cortese) un’artista. Si nota subito il contrasto tra Clelia che ha un’etica del lavoro e della vita, delle relazioni tra le persone e la maggior parte delle altre donne che non sanno come ammazzare il tempo. Le donne indossano dei costumi squisiti ed eleganti, parte delle collezioni delle Sorelle Fontana, che hanno fornito gli abiti per il film, ma anche l’ispirazione alla storia. Il film è anche un libero riadattamento della novella di Cesare Pavese La bella estate. La boss di Clelia, che appare nelle sequenze finali del film, ha una incredibile somiglianza nella maniera in cui è vestita e pettinata con una delle sorelle Fontana, Zoe. Ma i vestiti meravigliosi e il mondo della moda e degli abiti sono per Antonioni il tramite per entrare nel profondo non solo nell’animo femminile, ma dentro le pieghe della storia e elaborare un nuovo linguaggio cinematografico. Un nuovo modo per guardare alla vita, dentro l’anima e i desideri delle persone e dentro la società.
Le Amiche registra magistralmente le contraddizioni di una soggettività femminile che vuole farsi spazio e raggiungere la propria autonomia nell’assetto sociale ancora regolato dalle leggi maschili. Clelia infatti incarna la donna nuova in un processo di transizione che tiene al lavoro e alla sua indipendenza economica, anche se questo purtroppo sembra non essere ancora compatibile con l’amore o la famiglia. Sembra come se le donne dovessero scegliere l’una o l’altra cosa. E questo è soprattutto vero per le donne di origine modesta come Clelia che aveva sfondato nel mondo della moda, un mondo che per lei non è fantasmagoria e glamour, è lavoro duro e disciplina per poter arrivare al risultato desiderato.
È molto importante questo aspetto nel film di Antonioni. Perché il film racconta anche del successo che in quegli anni si stava delineando per l’Italia e per quello che oggi chiamiamo made in Italy. Le toilette delle donne sono squisite e sofisticate. Clelia poi sfoggia oltre a tailleur eleganti anche l’iconica borsetta di Gucci (Bamboo) che fu lanciata nel 1947. Antonioni deve aver particolarmente amato questa borsetta perché la fa indossare a Vanessa Redgrave in Blow-up (1966). Lo stile in questo film tiene insieme i pezzi frammentati delle esistenze, ma soprattutto sembra proteggere Clelia come una corazza.

Se Antonioni con la sua macchina da presa accarezza la realtà e soprattutto quella delle donne in questo periodo di transizione, il regista Antonio Pietrangeli sembra quasi divorare la protagonista del suo film Io la conoscevo bene, la giovanissima e stupenda Adriana interpretata da Stefania Sandrelli. La Sandrelli, allora nei primi anni della sua carriera, appare già nelle sequenze iniziali con il suo corpo passato in rassegna dalla macchina da presa mentre è stesa al sole in bikini ascoltando una piccola radio transistor. Adriana è una giovane donna che viene dalla provincia e arriva a Roma per cercare di sfondare nel mondo dello spettacolo. Ma se Clelia ha successo nel mondo della moda fino a dirigere con sapienza un atelier, Adriana incarna il processo di autodistruzione di una giovane donna alla mercè di donne e uomini che la sfruttano in tutte le maniere. Elegantissima come una modella di Vogue, Adriana cambia d’abito e parrucche come delle mascherate perfette che poi sottolineano sempre la sua inadeguatezza al mondo, sia a quello che vuole conquistare sia a quello che si è lasciata dietro nella campagna. Non c’è nessuna poesia quando Adriana torna a vedere i suoi e lei si staglia con il suo corpo agile ed elegante contro lo scialle nero e gli abiti contadini della madre. In questa scena soprattutto sembra che il contrasto di abiti e scenari siano passati in rassegna con uno sguardo moralistico e di condanna per la giovane donna, per aver aspirato a una vita diversa.
Mentre in Antonioni, quando Clelia, elegantissima, fa una passeggiata nel suo vecchio quartiere dove è nata, con case povere, il contrasto non è usato per un giudizio, ma è un dato di fatto mentre allo stesso tempo il regista usa poeticamente gli spazi, i muri con calcinacci che fanno da sfondo alla nuova Clelia. Questi momenti di contrasto e introspettivi sono delle opportunità per l’elaborazione di un nuovo linguaggio cinematografico.
Tornando a Io la conoscevo bene, lo spazio urbano gioca un ruolo importante in questo film che serve a complicare il rapporto di Adriana con gli abitanti di Roma. Ci sono infatti delle inquadrature molto significative in cui si vede Adriana alla finestra e balcone del suo appartamento che guarda fuori in cui diversi paesaggi romani si sovrappongono. Si vedono le nuove costruzioni e la grande torre circolare del gasometro, costruita all’inizio del XX secolo per servire il porto di Ostiense. Adriana è la personificazione di un miracolo mancato. Infatti non ci sono miracoli nel film di Pietrangeli. La Roma della Dolce Vita sembra aver dato posto a una realtà sordida e amara. Adriana è un personaggio fragile e al tempo stesso ingenuo che alla fine soccombe e si toglie la vita, incapace di crearsi una vita autonoma.
È interessante notare come due donne come Clelia nel film di Antonioni e Adriana nel film di Pietrangeli pur essendo entrambe portatrici di desideri di indipendenza siano cosi diverse. Al livello simbolico, le donne in Antonioni, pur nelle loro contraddizioni, continuano a viaggiare, come Clelia, anche se non si sa bene dove vadano, invece Adriana nella sua ingenua bellezza, le sue canzoni ascoltate alla radio o al giradischi, viene quasi punita per i suoi desideri. Di strada le donne ne hanno fatta tanta, ma queste contraddizioni espresse con tanta cura nel cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta sono essenziali per capire meglio i percorsi del presente.