In questa per certi versi orrenda stagione della politica internazionale, una dose sempre più consistente di opinione pubblica e di leader delle nazioni, guarda al Papa con la speranza che la sua iniziativa possa arrivare dove organismi come le Nazioni Unite e la politica internazionale in genere mostrano di non saper arrivare. L’auspicio è che il Papa faccia muovere il mondo fuori dalle due grandi trappole nelle quali sta sprofondando: l’ingiustizia strutturale socio-economica tra i popoli e dentro i popoli, il regime “eterno” di guerre e terrorismi a corrente alterna.
Si chiede al Papa, in particolare a questo Papa sulla cui persona si concentrano attese crescenti, più di quello che è chiamato a compiere in forza del suo mandato e più di quello che nella realtà il ruolo gli consenta.
Sotto il primo profilo, va richiamato che il Santo padre, capo della Chiesa cattolica, è il massimo interprete della “buona novella” lasciata dagli evangelisti. In quei testi, Gesù rifiuta il compito di messia politico e liberatore che la tradizione ebraica attribuiva alla figura messianica: non perde occasione per dire che è venuto a occuparsi esclusivamente delle cose che attengono allo spirito e al rapporto con Dio. Uomo pacifico e non violento come nessun altro nella storia, specifica che la pace che gli interessa è diversa da quella che gli uomini intendono e cercano: “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non come la dà il mondo…”.
Cristo è anche misericordioso e ama la gioia umana: guarisce, resuscita, sfama con pane e pesci, disseta con acqua e con vino, perdona chi pecca, caccia i demoni dai sofferenti. Si tratta però di “doni”, elargizioni che serve in proprio, senza passare dallo stato romano né dai ministri del tempio. Nei Vangeli la pace dello spirito e quella della politica appaiono appartenere a dimensioni diverse di una stessa umanità, persino opposte e inconciliabili in talune condizioni. “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada”, è scritto, con riferimento al conflitto che chi ha fede può scatenare con amici famigliari e consanguinei, figurarsi con le autorità della società civile.
Tutto questo, per dire che in sé la pace dei politici non appartiene alla missione papale. Le appartiene, però, farsi carico che ogni aspetto dell’esperienza umana divenga lesivo della dignità e della felicità dell’uomo (quindi anche di ogni fenomeno sociale, economico e politico, come la guerra e la pace), in quanto essere creato a immagine e somiglianza di Dio. E in quest’ambito è chiamata a operare anche in sede politica.
I limiti dell’azione della Santa Sede e della sua diplomazia non sono tanto, come ironizzava Stalin, nel fatto che il Papa difetti di divisioni armate: quest’assenza anzi è un vantaggio, per la natura della sua missione, che mai potrà prestarsi a divenire ostaggio dell’uso in proprio della forza (“vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, dice Gesù agli apostoli). Difatti non può proteggere, con quei mezzi, nemmeno le comunità cattoliche sparse sul pianeta, nella terribile situazione che devono gestire in questa fase storica. Tre su quattro perseguitati per ragioni razziali religiose o di nazionalità sono cristiani, per un totale che si aggira intorno ai 100 milioni. Migliaia di cristiani sono ogni anno assassinati per la loro fede (tra novembre 2013 e ottobre 2014 gli uccisi per ragioni strettamente legate alla fede sono stati 4.344, e 1.062 le chiese attaccate); decine di milioni di cristiani sono in fuga da paesi dove le loro comunità risultano radicate anche da millenni, ben prima delle confessioni religiose che ora le costringono a scegliere tra perire o andarsene. I dati ufficiali di novembre 2015 affermano che in Medio Oriente vi sia un numero di rifugiati che equivale al numero dei cristiani: 12 milioni e mezzo.
Quando il Papa era ancora re e metteva il triregno, tesseva le “paci” della politica (e partecipava ovviamente alle guerre, in quanto gestore di un potere anche “temporale”). Nella dimensione tutta spirituale che interpreta nella contemporaneità gli spetta ben altro: conferire all’azione della Chiesa, che si esprime nella storia e nella materialità della vita umana fatta anche di lotta per le ricchezze e il potere, capacità di interpretare e trasmettere il Vangelo così da interpellare gli “uomini di buona volontà” e i loro governi, e indirizzarli verso comportamenti rispettosi di ciò che la dottrina sociale della Chiesa chiama “bene comune”. È quello che Francesco ha fatto recentemente con l’enciclica Laudato si’, sulla situazione ambientale del pianeta.
Un’ultima considerazione. Se si pretende dal Papa che intervenga contro guerre e terrorismo, per l’eguaglianza e la giustizia sociale, occorre che contestualmente si esca dall’ambiguità del giudizio sulle religioni. Queste non possono essere insieme causa e soluzione alla violenza e all’ingiustizia. Il laicismo militante un tempo accusava la Chiesa romana di complicità con borghesi capitalisti e guerrafondai; coerentemente si asteneva dal chiedere al papa di fare il pacificatore del mondo o il riformatore sociale. La rivoluzione francese su questo punto fu tranchant, in senso letterario: riteneva il clero contrario a libertà eguaglianza fraternità, e lo portò sulla ghigliottina insieme a reali e aristocratici.
Se oggi si accusano i monoteismi, le religioni di discendenza mosaica, di essere intrinsecamente violente e totalitarie (si leggono molte affermazioni del genere, in materia), coerentemente ci si rivolga altrove per trovare portatori di pace e di giustizia.