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Franco Di Mare: ricordo di un’amicizia in tempo di guerra

Un uomo coraggioso e sincero che ha raccontato i teatri più terribili degli anni ’90

Donato Kiniger PassiglibyDonato Kiniger Passigli

Franco Di Mare, direttore di Rai3, durante la presentazione della trasmissione televisiva ''Titolo V'' in onda su Rai3, Roma 21 ottobre 2020. ANSA/FABIO FRUSTACI

Time: 4 mins read

Franco Di Mare, noto in Italia per la conduzione televisiva di programmi d’intrattenimento come “Uno Mattina” ed ex direttore di Rai 3, era un vero e proprio corrispondente di guerra. Non un inviato qualsiasi, ma un residente nei teatri di guerra più terribili degli anni ’90. Entrava in un posto malmesso e ci restava a lungo. Era però anche un uomo coraggioso e sincero che poteva dimenticarsi del motivo per cui si trovava in un paese in conflitto per aiutare la popolazione locale e stringere una vera amicizia, in nome di una solidarieta’ indefinita che si stringe proprio in quei posti malmessi, isolati dal resto.

Ci conoscemmo per caso nel dicembre del 1991 a Zagabria, all’Hotel Intercontinental, dove scendevano tutti coloro che avevano a che fare con la guerra balcanica. La Croazia di Franjo Tudjman si era disaccata dalla ex-Yugoslavia e la conseguente guerra fra Serbi e Croati era la prima tappa di un lungo conflitto mai veramete sopito. Io ero fra i primi fuzionari civili delle Nazioni Unite, appena arrivato da New York, come parte del contingente di peacekeeping. L’Onu aveva lì un ufficio logistico al primo piano dell’hotel. Il secondo piano era interamente occupato da mercanti d’armi e agenti di paesi medio-orientali, presagio dell’ imminente estensione del conflitto alla Bosnia. Erano tutti indaffarati a mostrare il proprio campionario bellico, neppure troppo segretamente. Il resto dell’hotel era condiviso da giornalisti, politici, improbabili mediatori e osservatori europei. La neutralità era la parola d’ordine che nessuno osservava.

Fanco era nella lobby con il suo fidato cameraman e dopo qualche battuta relativa al rispettivo stato di “singles” del tipo: “ Sposato? …Ma chi vuoi che ci prenda col tipo di vita che facciamo”, concordammo che dovevamo restare in contatto durante i mesi avvenire essendo io fra i pochi italiani (eravamo in tre) membri della missione di pace. Franco avava gia’ quell’aspetto un po’ transandato, con tanto di barba incolta, che lo ha accompagnato per tutta la carriera. Aveva anche un modo suadente di porre domande e due occhi neri, vigili, con uno sguardo profondo. Mentre io dovevo ancora capire a fondo i motivi di quella guerra interetnica che avrebbe sconvolto i Balcani, Franco capiva e raccontava le coseguenze della ferocia umana e la sua distruzione. L’interesse per le persone che soffrono non era solo curiosita’. Prese con se nella sua auto un grosso pacco di generi alimentari e medicinali che mi era stato affidato alla mia partenza da New York per un’anziana coppia idigente che non ero riuscito a localizzare essendo preso dalle prime incombeze del mio nuovo incarico. Fanco riusci’ a raggiungere i destinatari sfollati in una zona sogggetta alla pulizia etnica e a recapitare personalmente il pacco.

Qualche giorno dopo il nostro primo incontro e un paio di cene a base di cevapicici in una Zagabria dal cielo plumbeo, con strade odoranti di nafta e tubi di scarico di vecchie Zastava ( le FIAT slave ), ci separammo con il progetto di incontarci la settimana successiva a Vukovar, cittadina croata, porto fluviale e teatro di uno dei peggiori massacri civili di quello scorcio di secolo.

Così puntualmente una mattina, all’ingresso della base Onu di Erdut, un paese sperduto raggiungibile in auto dopo una serie di check-points e un lungo percorso accidentato, Franco si presento’ chiedendo di me. La responsabile del settore nord del contingente ONU, Blandina Negga, severa funzionaria d’origine antillese, si raccomando’ con me, suo sottoposto, di non fare commenti con la stampa, di non espormi in pubblico, perché quelle erano le strette consegne a cui attenersi. A Franco questo non interessava, voleva una guida fidata, ed io lo scortai con la mia Toyota fino alla poco distante Vukovar la cui battaglia si era conclusa da appena un mese dopo un lungo assedio. Le truppe irregolari serbe, fiancheggiate dagli incessanti bombardamenti dell’esercito Yugoslavo, avevano praticamente raso al sulo quella citta’ una volta fiorente di commeci e multi-etnica. Ero entrato a Vukovor per la prima volta solo pochi gioni prima, di sera, per il piu’ agghiacciante percorso verso l’unica stazione di servizio attiva nella regione, alle porte della citta’, adesso sotto controllo ONU.

All’imbrunire, avevo deciso di entrare in paese e percorrere i viali martoriati da mesi di incessanti colpi di mortaio. A colpirmi non furono pero’ i crateri sul selciato, ma gli scheletri delle sparute palazzine miracolosamente in piedi, nelle quali una fievole luce annunciava ancora una qualche presenza.

Di giorno, Franco ed io percorremmo di nuovo quei viali costellati da monconi aguzzi di alberi crivellati, macerie e case sbrecciate dove giacevano ancora suppellettili riverse, oggetti ed indumenti sparsi. Fummo entrambi sorpresi nel notare che malgrado la devastazione, donne, e qualche bambino, uscivano fra le macerie per racarsi chissà dove, fra altre macerie. Erano donne ben vestite, forse di etnia serba, persino col rossetto sulle labbra, in un posto dove nulla più era umano. Capimmo allora che le poche persone rimaste convivevano all’interno degli scheltri di cemento e lamiere contorte che s’illuminavano a sera. Niente poteva piegare quella dignità e coraggio. Franco fece un reportage agghiacciante che la Rai mandò in onda qualche giorno dopo e da cui emergeva comunque la voglia di rinascita.

Durante un’inverno gelido, reso ancora più duro dalle sanzioni che proibivano l’arrivo di generi di prima necessità in buona parte della della ex-Yugoslavia, Franco venne a trovarmi regolarmene in posti sperduti quali Topusko, stazione termale distrutta, Beli Manastir, cenro agricolo, e altri villaggi della Baranja, nella Croazia orientale spesso in mano a bande criminali ben armate. Era diventato un riferimento per me oltre che latore di messaggi per la mia famiglia. Quando si manifestava mi faceva usare il suo sofisticato telefono satellitare collegato all’auto di servizio. Una rarità per quei tempi la possibilità di sentire una voce lontana, e far sapere che stavamo bene.

Franco ha trascorso molti anni in quella martoriata regione e ne è uscito portando con se una magnifica bambina, Stella, da lui adottata.
Ho rivisto Franco in Rwanda, quache anno dopo. Altro conflitto, un genocidio appena commesso e colpevoli da ricercare. Franco di Mare ha raccontato anche quello, acoltando politici e persone qualunque. Altre telefonate da posti sperduti. Ci accumunavano curiosità e attenzione a non giudicare tropppo frettolosamente.

Ho saputo della sua scompara ieri, mentre ero a Zagabria, città nella quale ci eravamo conosciuti 33 anni fa. Una rara malattia, forse contratta in ex-Yugoslavia, che lui aveva potuto annunciare in TV solo poche settimane fa, e che non mi ha lasciato il tempo per fargli una chiamata.

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Donato Kiniger Passigli

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