Come sappiamo, Francesco era un bimbo di sette anni, colpito da otite bilaterale. Quando, un paio di settimane fa, il malessere è insorto, i genitori sono rivolti al dott. Massimiliano Mecozzi, un medico che si attiene alla c.d. medicina omeopatica. Sembra che le condizioni del bambino siano andate gradatamente, ma costantemente peggiorando, fino alla notte del 23 maggio: ricoverato nell’Ospedale di Ancona, l’infezione era già precipitata in ascesso cerebrale. Vano l’intervento chirurgico: ormai in coma irreversibile, il 27, Francesco è morto.
Ora, le indagini. Fermiamoci qui. Anche perché, il “rilievo penale” di una condotta umana circoscrive la ricerca (o, comunque, dovrebbe farlo) a quei soli aspetti dell’azione, o dell’omissione, che possono giustificare una sanzione di quella natura. E qui, invece, la scelta omeopatica pare svelare più ampie questioni, e più inquietanti.
Non il dubbio che i vaccini nuocciano, che la medicina clinica e chirurgica nuocciano, che le industrie farmaceutiche nuocciano è inquietante. Ma la certezza, convulsa, rancorosa, iconoclasta, che nuocciano in sè. Che non si debbano accertare errori di questo o di quell’individuo, ma svelare piani impersonali, eppure minutamente preordinati, per istituire, propagare e consolidare il dolore, la malattia, la morte.
Dubitare che un farmaco, o una terapia non si prendano cura della salute ma, nel concorso di precise circostanze personali e ambientali, la compromettano, non solo è lecito: ma è, esattamente, il modo in cui lo studio, la ricerca, il confronto, la sperimentazione, la proposta scientifica vivono. La conoscenza si ciba di ignoranze parziali. Dubitare, nella ricerca, è giusto.
Ma circondare un farmaco o una terapia di sospetto, evocare una malvagità lucida, e lucidamente venefica, che persegua una rovina moltitudinaria, un trionfo maligno e demoniaco della morte, che agisca per cavarne immediate quanto fantasmatiche utilità: di “potere”, di “guadagno”, è rendere il farmaco un “preparato ontifero”: significa essersi messi, rimessi anzi, a rievocare gli spettri della peste manufatta, della caccia ai monatti. Significa armarsi di fiaccole per cercare l’orco. Sospettare, è ingiusto. Sempre.
Ed ecco l’ignominia, il veleno. Ai genitori di Francesco, solo una carezzevole pietà. Si alzi chi si sente di levare una mano sul loro volto: sono entrati in una dimensione semplicemente incomprensibile, inavvicinabile, per chiunque non abbia partecipato ai funerali del proprio figlio. Sicché, qui si tace. Forse per loro avrà spazio la formula della “responsabilità penale”, o di altra e più elevata responsabilità. L’una, goffa, nella sua pretesa di restituire un senso all’assurdo, e una misura all’incommensurabile; l’altra, misteriosa. Perciò, di nuovo, silenzio.
No. L’ignominia, non riguarda loro, ovviamente. Riguarda la superstizione. Che non è mai faccenda di fattucchiere, o di fondi di caffè. Nasce sempre da un pensiero: che però, cedendo alla passione, si deforma, si rinnega, si confonde. E confonde.
Chiunque abbia vissuto una prolungata esperienza diretta con una persona che vive “altrove”, nell’autismo, o in luoghi della mente e del cuore parimenti ingarbugliati, sa che quella persona vive. Ma sa che vive perché chi gli vuol bene, non vive più per sè: nemmeno per un secondo; ma vive non vivendo, se non in quella vita nascosta. E non si lamenta; sorride, ma con misura; è sempre proteso, ma entro una tensione mite, non rassegnata, ma paziente; e che si tiene discosta, senza clamore, tanto dalla disperazione, quanto dalla speranza.
Di fronte ad una parola che si presenta come nuova, non rimane indifferente: leva lo sguardo, ma non si scompone, perché quella vita speciale lo ha reso ovattato, equilibrato, misurato. Dopo dieci o venti e più anni, stanco, a volte, stanchissimo, ha però imparato che guarigione è parola lontana: che, comunque, non restituisce, nè ripristina. Diradare le crisi, “momentanee” (come momentanee sono le ore per un giorno, e un giorno per una settimana, e una settimana per un mese, e questo per un anno, e così via), trasmettere e ricevere gesti di straordinaria ordinarietà, è il risultato di una così sublime pazienza (sublime, anche quando pare eclissarsi fra le lacrime), che nulla può sottometterne l’importanza.
Ma quando a quella mitezza, a quella misura, a quella simbiosi nel dolore che diventa vita nell’altro, quella parola nuova aggiunge il soffio del rimpianto, il sospetto che il tangibile sia mascherato da intangibile, allora può accadere che l’equilibrio si guasti, che, se non un chiaro rimedio, si offra almeno, e obliquamente, un colpevole. E così un dolore sopito, improvvisamente, si riscuote; e può incrudelire, scoprendosi insaziato; e, frastornato, strattonato dalle novità, può volgersi entro di sè, spezzando quella simbiosi, e cercando la vendetta.
Quando questo accade, e la scienza diventa amuleto, anche gli altri temono: non avendola vissuta, temono però di poter subire una sofferenza preordinata, che insegue ognuno, uno a uno, fin dentro la sua casa. Sono i più indifesi: quanti, per le alterne vicissitudini della vita, hanno una o più ragioni di malessere, di inappagamento, di rabbia. Di disorientamento.
Incalzati da quel tarlo -“un colpevole c’è”- la conoscenza, tutta e in quanto tale, è qualificata “ufficiale”: ritratta come propaggine di corti, principati e Palazzi, non può che essere, tutta e in quanto tale, sopraffazione. Unica difesa: la diffidenza, il dileggio fatto in casa, che inneggiano ad uno studio non pacato ma animoso, non corale ma antagonista, non partecipe ma eremitico.
E un patrimonio costruito nei secoli, fra martiri come Bruno e Galileo, Napoleoni della pubblica salute come Pasteur, Fleming, larghe e affratellanti conquiste, non gratuite, mai incerte, sempre migliorate perché sempre peggiorate, rischia la dilapidazione.
Il dubbio, per non corrodersi in sospetto, in primo luogo, deve dubitare di sè. E, certo, il dolore di uno deve essere il dolore di tutti. Ma a bassa voce; altrimenti, i secoli si assottigliano, e si riaccendono le torce.
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