Non so voi, ma quando ho visto “Hidden Figures” (“Il diritto di contare”), del regista Theodore Melfi ho provato un sentimento che va dalla tenerezza alla quasi commozione; dall’ammirazione alla consolazione del fatto che può ancora capitare di imbattersi in belle storie, nonostante quello che ci accade intorno. Belle storie nel senso che il film è girato e recitato bene; ma soprattutto racconta una bella storia, per di più reale.
“Hidden Figures” è un film del 2016 candidato agli Oscar con grandi possibilità di vittoria (ha già vinto ai Golden Globes); si basa su un libro, anche questo intitolato “Hidden Figures” e poi: “The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”.
E’ la storia vera di una scienziata, di una matematica e fisica Katherine Johnson, che collabora con la NASA; è lei che “traccia” le traiettorie per il programma spaziale “Mercury”, e la successiva missione “Apollo 11”.
Katherine e le sue due colleghe Dorothy Vaughan e Mary Jackson si sono conquistate un posto di rilievo, nella storia dell’esplorazione degli spazi extraterrestri. Grazie ai loro calcoli John Glenn diventa il primo astronauta americano che viene messo nella condizione di poter compiere un’orbita completa della Terra.
Fin dalla prima scena il film ci “immerge” in quell’America inizi anni ’60 che appare un po’ scolorita come certe vecchie fotografie (non tanto scolorite, però, vista l’aria che tira). La campagna della Virginia, sul ciglio di una strada un’automobile in panne; tre donne che sembrano in difficoltà. Appare una pattuglia della polizia; è uno spasso vedere l’espressione che si dipinge nel loro volto quando le tre ragazze, nere di pelle, mostrano i tesserini plastificati che le qualificano come dipendenti della NASA. Lo indovini, che quel poliziotto non si capaciti che quel tesserino sia in quelle mani, e per di più autentico. Si offre di accompagnarle alla base di Langley, dove dicono di essere attese. Non c’è bisogno. La donna, per di più nero, ci pensa lei a rimettere in moto l’automobile…
Katherine, Dorothy e Mary, originari di minuscoli e insignificanti villaggi della Virginia dove essere neri di pelle è ancora una maledizione, sono di dura cervice. Studiano, si sudano la laurea in università locali, volontà d’acciaio e determinate a conquistare quello che a loro spetta; e ce la fanno. E’ vero, le circostanze hanno giocato per loro. L’orrore della Seconda guerra mondiale è, per loro, l’occasione per spiccare il volo. Nel 1943 gli Stati Uniti hanno bisogno di tutti, poco importa se maschi, femmine, bianchi, neri, per il progetto Manhattan. Chi sa di matematica e di fisica è benvenuto. Le tre ragazze come migliaia di altre persone sono ingaggiate dall’industria aeronautica. Il resto, però, ce lo mettono loro, la loro indomita volontà. E ne fanno di strada…
Ecco che quando gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica si sfidano per i primi, timidi passi per la conquista dello spazio; e quando l’Unione Sovietica con lo Sputnik di Yuri Gagarin umilia gli Stati Uniti, ecco che entrano in scena Katherine, Dorothy e Mary. Sono loro a insegnare ai colleghi maschi bianchi come e cosa calcolare; e quando arriva un supercomputer IBM, chi è che insegna agli altri come funziona? Proprio lei, Katherine; e dire che il supercomputer IBM aveva, come scopo, quello di sostituirla… John Glenn è a Katherine che si affida; è lei che deve fare i calcoli delle rotte, lei deve dire l’ultima parola sui calcoli, lei deve controllarli e correggerli. A lei, insomma, affida la sua vita.
E dire che in quegli anni, ancora, le donne e soprattutto nere, spesso dovevano lavorare in uffici separate, mense diverse, bagni riservati; perfino, c’erano, fontane per “soli bianchi”. Matematica e fisica però non vanno tanto per il sottile: o i calcoli li sai fare, e allora chi se ne frega, se sei donna e nera di pelle; oppure quei calcoli non li sai fare, e chi se ne frega, se sei bianco di pelle e uomo.
E’ grazie a Katherine e alle sue due amiche, se il primo uomo, bianco di pelle, ha girato attorno la Terra, e poi è sbarcato sulla Luna. Katherine è ancora viva, prossima ormai ai cento anni. Anni fa, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama le ha conferito la “Medaglia della Libertà”, la più alta decorazione civile americana.
Quale che sia l’opinione che si ha, e che si avrà, di Obama, in questo caso ha fatto benissimo. Dovevano pensarci i suoi predecessori, a dirla tutta. Ed è una storia, questa di Katherine, non solo bella. Dovrebbe dire qualcosa, a qualcuno.