In tv una signora stringe al seno un libro. “Mi piace leggere” dice.
Il terremoto sale verso nord e dobbiamo pensare a prepararci un trolley da tenere pronto sulla porta di casa. Cosa metterci dentro? Qui non si tratta di andare via per il weekend. Si tratta di salvare le cose più importanti della propria vita: ciò che permetterà di collegare il prima e il dopo, una specie di filo d’Arianna, per continuare a vivere. Può essere un album di ricordi, può essere un oggetto particolare.
Ma chissenefrega dei vestiti. Io ho sempre comprato un sacco di abiti, scarpe e accessori. Mia nonna mi diceva: “Ti manca sempre uno per far cinquanta”. Ho ormai un guardaroba considerevole, tuttavia c’è sempre qualcosa che proprio mi pare assolutamente indispensabile avere, perché penso mi potrebbe tornare utile in una data occasione. Poi finisce che non riesco ad usare tutto e mi fa pure piacere imprestare o regalare alle amiche qualche capo. Un libro, invece, giammai.
Se penso a qualche titolo che mi è stato chiesto in prestito decenni fa e non mi è più stato restituito, mi brucia ancora l’animo. Ero all’università e mi ero fidanzata con un uomo più grande di me o meglio lui era riuscito a fidanzarsi con me facendomi divertire da matti. A casa c’era l’inferno: mia madre e mio fratello non perdevano occasione per insultarmi già a colazione perché stavo con “un vecchio”. Quindi decisi di andarmene per sempre e trasferirmi a Bolzano da mia zia. (Non ero così innamorata da pensare di andare a vivere con lui rinunciando alla mia libertà). Cosa portare via? Feci due valigie di vestiti e quindici sacche colme di libri. Guardavo la mia libreria e mi commuovevo: quanti insegnamenti e quanti ricordi. Ah, non posso lasciare qui Nietzsche, ma neppure Kierkegaard… e Omero? Sì, sì con me anche tutto Flaiano e Campanile. Insomma l’operazione bagaglio mi prese tutta la giornata. Quando finii di caricare i 17 colli nella mia piccola jeep Mehari erano ormai le otto di sera e non sarei arrivata prima di mezzanotte a Bolzano. Né esistevano i telefonini allora. Decisi di chiedere ospitalità per la notte al mio fidanzato. Dopo poco telefonò a casa sua papà per avere mie notizie, arrivò lì disperato e il mio fidanzato, che era un avvocato sgamato e non voleva perdermi, stilò la transazione per il mio ritorno indolore a casa.
Ora ho una biblioteca molto più considerevole e mi rendo conto che non potrei fuggire con i miei libri. Ma la prima cosa da salvare, a cui stavolta ho pensato, è stato il computer: lì ci sono tutte le mie storie. Ho anche una marea di quadernetti di appunti e magari potrei infilarli in una sacca. Vestiti? Solo due cambi e un beauty case. Nonostante tutto questo ragionamento di preparazione a un possibile terremoto, continuo a comprare cose e compro armadi per contenerle.
Avevo diciotto anni ed ero ospite nel palazzo di un amico tedesco. Per far colpo su di me, aprì le ante di un grande armadio antico che svelò un autentico arsenale: pistole, fucili, bombe a mano. Disse: “Così accoglierò i comunisti”. Scappai il giorno dopo, rifugiandomi a casa di un’altra zia a Francoforte.
Dal terremoto, invece, non ci si può difendere. Perché è dagli dei che non ti puoi difendere. Gli dei non sono né buoni né cattivi. Sono. E a chi poi ci ha raccontato che la divinità è una sola, è maschile ed è buona, dico che noi non possiamo giudicare la bontà di qualcosa che non conosciamo, che è al di là di noi, che forse ci controlla o forse no. Forse solo ci guarda e ci lascia fare. In libero arbitrio. E come ha inventato noi, ha inventato la natura a cui lascia fare. Ma non appena la natura si rivela più forte di noi, supponiamo sia divina. Certo, tutto quello che è luminoso è divino, la radice indoeuropea “di” significa splendente. Ma alle volte lo splendore acceca: è il prezzo che dobbiamo esser disposti a pagare per vivere.
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