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Malagiustizia per Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Hasci Hassan

Il caso del cittadino somalo condannato per l'omicidio dei giornalisti italiani e scagionato dopo 17 anni di galera

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Miran Hrovatin e Ilaria Alpi in Somalia, pochi giorni prima di essere uccisi a Mogadiscio, il 20 marzo 1994

Time: 6 mins read

Haschi Omar Hassan è un cittadino somalo definitivamente condannato, il 26 giugno 2002, a 26 anni di reclusione per l’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e e del suo cameraman Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadisco il 20 marzo del 1994. 

E’ stato recluso per circa 17 anni. Era innocente.

Un paio di giorni fa, la Corte di Appello di Perugia ha pronunciato la Revisione della condanna, assolvendolo. La condanna, e su questo punto c’è unanimità, era stata pronunciata sulla scorta di un’unica prova: le dichiarazioni ed il riconoscimento oculare, compiuti a suo carico da Alì Mohamed Rage, detto “Gelle”, un altro cittadino somalo. Le divergenze, fra quanti si sono a vario titolo occupati dell’affaire,  hanno sempre riguardato la causale dell’omicidio. Le complesse ipotesi avanzate sull’intera vicenda, però, oggi non rilevano.

Può, forse, interessare soffermarsi brevemente su quello che, con ineffabile gusto pusillanime, verrà definito “errore giudiziario”. Cioè “fisiologico”.

In primo grado, Hassan, con sentenza del 20 luglio 1999, era stato assolto dalla Corte di Assise di Roma; al momento stesso dell’assoluzione, la Signora Luciana Alpi, madre della giornalista, dichiarava: “Si voleva condannare un giovane poi risultato innocente. Come cittadina sono soddisfatta perchè, partecipando alle udienze di questo processo scandaloso, ho notato come prove contro questo ragazzo non ce ne fossero”.

Siamo a 17 anni dalla Revisione.

La Procura della Repubblica impugna, e il 24 novembre 2000, invece, in grado d’Appello, Hassan viene condannato all’ergastolo.

La Corte di Cassazione, il 10 Ottobre 2001, annulla parzialmente la condanna, ma solo perchè ritiene non sufficientemente provata la circostanza aggravante della premeditazione; quanto alla colpevolezza, nessuna novità. Per questa unica ragione, infatti, come ricordavo, il 26 Giugno 2002, dopo il rinvio della Corte di Cassazione, Hassan veniva condannato a 26 anni di reclusione, anzichè all’ergastolo.   

Hassan era giunto in Italia, per testimoniare sulle violenze che sarebbero state commesse dall’esercito italiano in Somalia, durante l’Operazione Unosom I. Più o meno nello stesso tempo, l’11 Ottobre 1997, arriva anche “Gelle” e, negli uffici della Questura di Roma, afferma di essere stato presente sul luogo e al momento del duplice omicidio: e di essere in grado di riconoscere chi ha sparato. Il riconoscimento di Hassan viene compiuto prendendo visione di un filmato, in cui sarebbero stati riconoscibili le fisionomie. Dopo il riconoscimento, “Gelle” si rende irreperibile. Non deporrà mai in dibattimento. Il 12 Gennaio 1998, Hassan è tratto in arresto.

Il seguito giudiziario è quello esposto. Venuto, dunque, per esporre le ferite che avrebbe subito dall’Esercito italiano, Hassan è preso in cura dalla magistratura patria: che, per la bisogna, lo seppellisce vivo.

Nemmeno un mese dopo la sua condanna definitiva, e tre anni dopo le clamorose affermazioni della Signora Luciana Alpi, “Gelle” prende il telefono, chiama il giornalista somalo Mohamed Sabrie Aden, e gli racconta di aver mentito, per soldi. Il giornalista confermerà questa conversazione alla Commissione d’inchiesta della Camera, nel frattempo istituita per occuparsi dell’omicidio Alpi/Hrovatin. La Commissione raccoglie a verbale, e pone il segreto. Questo verbale viene desecretato già nella prima metà del 2006, poco dopo la chiusura dei lavori. Siamo a dieci anni dalla Revisione.

Hashi Omar Hassan
Il somalo Hashi Omar Hassan alla lettura della sentenza che lo assolve per non aver commesso il fatto al termine del processo per l’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. (Foto ANSA/Luciano Del Castillo)

La Commissione stessa, nella sua relazione di maggioranza (Centro-destra), aveva scritto: “Una assurdità logica di fondo governa la vicenda della condanna definitiva di Hasci Omar Hassan”; e cioè che costui, consapevole di essere un duplice omicida, si sarebbe volontariamente recato in Italia, dove l’attenzione sul caso era intensissima, tanto più in concomitanza (autunno 1997) con i lavori della Commissione Gallo sulle rammentate condotte sospette dell’Esercito Italiano in Somalia. E ancora: “Un teste, con il quale “Gelle” si trovava nel torno di tempo dello svolgimento dell’agguato, ha anzi escluso che “Gelle” stesse sul posto e che quindi potesse essere stato testimone oculare dell’attentato…”; inoltre, “…può assumere rilievo il contenuto di un’intervista telefonica rilasciata al giornalista del TG3 e della BBC, tal Sabrie…” (va qui notato che la Relazione è comunicata alla Camera nel Febbraio 2006: persino prima che venisse nominalmente rimosso il segreto dal ricordato verbale, concernente la precisa ammissione di mendacio fatta da “Gelle”); e prosegue: “Alla luce di queste rilevazioni, risulta oggettivamente molto difficile che “Gelle” possa continuare ad essere ritenuto teste oculare e perciò fondamentale per essere anche l’unico teste. Tale constatazione mette altrettanto oggettivamente in dubbio la fondatezza della sentenza definitiva con la quale Hasci Omar Hassan è stato condannato come partecipe all’assassinio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin”. E così conclude sul punto: “Sono molto consistenti gli elementi di prova sopraggiunti per effetto dell’indagine svolta, per poter plausibilmente intraprendere un processo di revisione della sentenza di condanna di Hasci Omar Hassan, e per queste ragioni gli atti vanno trasmessi alla Procura Generale di Perugia per le valutazioni e gli adempimenti di competenza”.    

Era il Febbraio 2006: dieci anni e mezzo prima della Revisione.

La Commissione presenterà due altre Relazioni, di minoranza: una dei Verdi; un’altra del Centro-Sinistra. Entrambe affrontano diffusamente le questioni sulla causale dell’omicidio, se connesso alla c.d. Malacooperazione internazionale, o al traffico d’armi o a quello di rifiuti tossici; e alle ritenute implicazioni istituzionali e politiche. Ma sul caracollante e sospetto nucleo giudiziario e processuale della vicenda, molto poco. I ripetuti e amplissimi rilievi critici, invece, si diffonderanno pressochè esclusivamente sul contenuto della Relazione di maggioranza attinente alle questioni causali e di contesto. Comprensibile, ed anche utile, oltre che giusto. Tuttavia, c’era un uomo in cella; e il capitale rovello del “chi sta con chi”, magari, di tanto in tanto, avrebbe potuto cedere il passo alla questioncella.

Nel frattempo, la magistratura continuava a stare nel suo: aveva disposto della vita di una persona. Epperò, anche senza distogliersi dal suo, già allora, avrebbe quanto meno potuto dubitare di aver fatto bene a disporne. Già allora. Poteva dubitarne anche prima, per la verità: di fronte alle dichiarazioni della Signora Alpi; ma, certamente, a cominciare dal Febbraio 2006: quando una Commissione Parlamentare aveva messo nero su bianco che l’unico testimone d’accusa aveva confessato la sua menzogna. E, formalmente, l’aveva investita “per le valutazioni e gli adempimenti di competenza”.

Invece, il tempo passa, e la vita di Hassan continua consumarsi in cella.

Il 10 luglio 2007, anzi, la Procura di Repubblica di Roma chiede che venga ordinata l’archiviazione del procedimento-bis: perchè “non è stato possibile accertare altre responsabilità oltre a quella di Hassan”; nonostante, in questa ulteriore inchiesta, ci fossero gli atti di una Commissione Parlamentare che aveva rassegnato quelle conclusioni. “Siamo amareggiati, delusi e offesi di questo modo di fare giustizia”, dichiarano padre e madre,  Luciana e Giorgio Alpi. Due anni e sette mesi dopo (14 Febbraio 2010), durante i quali Hassan continua a giacere recluso, il GIP capitolino, però, rigetta la richiesta di archiviazione; solo a Novembre   si avvia il processo per calunnia a carico di “Gelle”.

Ma la Revisione, che non era legata unicamente alla condanna definiva per calunnia del falso testimone, poichè poteva anche fondarsi su “nuove prove”, “sopravvenute o scoperte” dopo l’erronea condanna, non riesce a partire.

Bisognerà attendere il 16 Febbraio 2015, quando, ai microfoni della trasmissione “Chi l’ha visto?”, “Gelle” ripeterà che aveva mentito; si badi: senza nulla aggiungere a quanto formalmente ed istituzionalmente acquisito e noto da oltre 9 anni. Ma passa un altro anno. E la Procura di Perugia, cui le conclusioni della Commissione Alpi/Hrovatic erano state trasmesse, si ripete, sin dal Febbraio 2006, non agisce. Saranno i nuovi Avvocati di Hassan a presentare l’istanza. Il giudizio di Revisione si apre nel Gennaio di quest’anno. Due giorni fa, Hassan viene assolto.    

Il sotteso, ma neanche tanto, di questa vicenda giudiziaria, su cui non voglio spendere aggettivi, è che, certo, “l’errore giudiziario” c’è stato, ma la magistratura non ne ha colpa; che l’hanno ingannata; che il caso era complesso; che copiosissima era la documentazione da esaminare, e sfuggenti gli altri elementi di prova, e così via. Si potrebbe subito replicare che l’Apparato Giudiziario è lì apposta per quello: perchè, se il potere di giudicare e di punire un essere umano, gli oneri e gli onori conseguenti, dovessero commisurarsi al grado di difficoltà necessario per stabilire quale dei bambini ha messo le mani nella marmellata, basterebbe la Nonna.

L’argomento, dunque, sarebbe del tutto privo di vigore etico.

Il punto, semmai, è e rimane questo: se c’è un terremoto, la magistratura chiede: a progettisti, amministratori pubblici e privati, a studiosi, e vuole sapere se potevano almeno esserne limitati gli effetti devastanti; se un malato muore in ospedale, la magistratura chiede: a medici, a paramedici di ogni ordine e grado, e vuole sapere se diagnosi e terapia sono state ragionevolmente accurate; se un operaio muore mentre lavora, la magistratura chiede: all’imprenditore e ad ogni suo collaboratore, e vuole sapere se hanno fatto tutto quanto poteva per ridurre il rischio d’infortunio. Giusto. Ma, se un magistrato incorre in “errore”, ecco, la faccenda si complica fino all’estenuazione. Giacchè, se non si rendesse complicata, si rischierebbe di comprometterne “l’indipendenza e l’autonomia”. Che, in termini così beffardamente sciorinati, non significa un bel niente.

Nessuno deve essere considerato colpevole fino a prova del contrario: ovviamente, neanche la magistratura. Ma solo la magistratura italiana è sempre non colpevole: anche quando è provato il contrario.

  

  

  

   

  

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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