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June 26, 2016
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Brexit: la sindrome del Day After

Sfogata la voglia di abbandono, gli elettori britannici presi dal dramma della solitudine cominciano a dubitare

Luigi TroianibyLuigi Troiani
cameron-merkel-brexit

David Cameron con Angela Merkel in un incontro a Berlino il 7 giungo 2012: (Ph. presstv.us)

Time: 9 mins read

Ho spesso ripensato al senso di un proverbio narratomi da un saggio cinese durante uno dei miei viaggi tra le perversioni dello sviluppo economico asiatico. Suonava più o meno così: “Quando ti va una zuppa di pesce, fa attenzione prima di togliere i tuoi amati pesciolini rossi dall’acquario del salone per bollirli in pentola. Se, come probabile, la zuppa non ti piacerà, scordati di poter rimettere i pesciolini nell’acquario”. Nella mimica risaltava l’ineluttabilità del non ritorno, il che comportava per i malcapitati lo one way ticket.

Pensavo alla proverbiale saggezza cinese, leggendo le sconsolate cronache del giorno dopo britannico. Sulle prevedibili macerie del referendum popolare, si starebbe innalzando il coro di indignazione e delusione, pianti e lai di pentimento, con la disperata consapevolezza che nelle mani britanniche, dopo tanto tirare la corda europea, sia rimasto un mozzicone spezzato di inutile canapa, che il ponte levatoio alzato dalla volontà del popolo sul canale della Manica mai più tornerà ad abbassarsi. Disperati i giovani, condannati da genitori e nonni a separarsi dal “bel buon” mondo europeo nel quale volevano crescere e svilupparsi in dignità e senza rancori insieme ai coetanei del continente, tra Erasmus, contatti umani, condivisione: hanno votato compatti per il remain, non casualmente. Indignati gli scozzesi (62% per il remain) e i nord irlandesi (56% per il remain): i primi lasceranno il Regno Unito alla prima occasione e con la loro premier, Nicola Sturgeon, chiedono l’avvio immediato del confronto con Bruxelles “per proteggere il posto degli scozzesi in Europa”. I secondi sono angosciati dalla prospettiva del possibile ritorno agli anni orribili della guerra civile. Londra, che ha votato compatta per il remain, guarda stupefatta la grande macchia del leave sulla cartina del Regno: è tutta nel ventre agricolo e industriale delle periferie, lontana dalla capitale colta e cosmopolita.

E’ questo il mondo che ci aspetta, ahinoi non solo in Bretagna? Una testa grande che s’affatica per comprendere le cose, e una periferia pronta a bere qualunque demagogia e insulto gli venga proposto, purché ci sia un nemico con cui prendersela, un altro contro il quale sfogare le proprie frustrazioni? Lo si è visto con evidenza dopo l’assassinio della parlamentare laburista ed europeista Jo Cox, con il balzo in avanti di sei punti dei remain, cosa possa l’emotività sull’elettorato.

E comunque da ora ognuno se ne starà a casa propria, i Brits da una parte, che siano o no europeisti, gli EU da un’altra. Fuggano pure gli investimenti delle multinazionali, sia sotterrata la piazza finanziaria mondializzata di Londra. Si accomodino al potere la destra conservatrice, i nazionalorgogliosi di Farage. Si torni a quando (ne avevo 18 di anni, con il mio primo viaggio fuori Italia proprio nel Regno Unito che noi chiamavamo Inghilterra, quella dei Beatles e dei Rolling Stones, di una musica e un cinema immensi, di Carnaby Street e Twiggy, della liberazione sessuale, dello sberleffo al dormiente mondo degli adulti di allora) le “bianche scogliere di Dover” apparivano d’improvviso ai traghettanti da Calais (magnifico indimenticabile Rodin sulla sponda francese), per il trasbordo nei treni “diversi” dritti sparati verso Victoria Station, porta sul mondo  “altro”, e poi via tra cattedrali e castelli, nelle campagne e nelle cittadine del nord sino alle nebbie e ai fiordi freddi della Scozia.

Forever and ever dunque, gli amici britannici staranno di là e noi di qua? Dopo quasi mezzo secolo di comunione comunitaria e unionale?

I primi a dubitarne sono gli stessi elettori britannici. E non sorprende. Sono, per l’ennesima volta, nel pendolo del distacco/ritorno da/verso il continente. Sfogata la voglia di abbandono, sono presi dal dramma della solitudine.  Stavolta, però, le cose non stanno come in passato quando, ad alzare la voce, si otteneva dagli altri europei, ogni e qualunque favore ed eccezione, purché si restasse dentro le istituzioni. Non potendo più brandire la minaccia dell’exit, i britannici si ritrovano con le armi spuntate, e devono fare i conti con la propria stupidità politica verso l’UE che non è episodica, ma storica e continuata, salvo pochissime eccezioni, come mostra anche l’ultimo episodio della serie, starring il primo ministro David Cameron. Giocando al rialzo con le istituzioni, come la gran parte dei suoi predecessori (soprattutto quelli di parte conservatrice), il buon David cosa ti fa? Teme il montare della destra nazionalista dentro e fuori dal suo partito, e invece di contrastarlo con senso di leadership e in coerenza con la storia del suo partito (Thatcher  a parte) prende il cappello da beggar utilizzato con Bruxelles da tanti predecessori chiedendo e ottenendo privilegi che gli consentano di vincere il referendum che si dice costretto a convocare. Solo quando si rende conto che sta favorendo gli antieuropeisti, comincia a pronunciare parole di verità ai concittadini, ovvero che senza UE avranno un gramo futuro. E’ tardi, e perde il referendum che nessuno gli ha chiesto di convocare. Nelle notti agitate di Downing Street, chissà che Cameron non senta lo spettro irritato di Churchill, che quelle stanze ha abitato prima di lui, raccontargli di “uno che nutre il coccodrillo nella speranza che questo lo mangi per ultimo”.

* * *

Il terremoto referendario in soli due giorni ha provocato reazioni davvero contundenti.

Già più di tre milioni di elettori britannici, soprattutto da Londra e grandi città, hanno sottoscritto un documento che chiede, sul sito della Camera dei Comuni, l’approvazione immediata di una legge che preveda la ripetizione del referendum se nel primo va a votare meno del 75% degli aventi diritto, e il vincente non va oltre il 60% di voti. E’ il gesto della disperazione: di questi tempi nessuna prova referendaria potrebbe rientrare in quei parametri. La gente non ha fiducia nella politica e sta alla larga dal voto (nonostante la sua rilevanza, a questo referendum ha votato il 72% degli aventi diritto); inoltre nelle cabine referendarie ama spaccarsi praticamente in due come una mela. Comunque martedì la commissione parlamentare sulle petizioni si esprimerà in merito.

L’accaduto fa riflettere sullo stato (magro) della democrazia, ma tant’è. Le firme saliranno ancora, a riprova dello spirito da day after che ha colto l’opinione pubblica britannica. Nei social network monta il disappunto di centinaia di migliaia di elettori che capiscono di aver detto leave senza apprezzarne le implicazioni. C’è un fiume di messaggi  che si chiedono, il giorno dopo aver votato leave, cosa cavolo sia quest’Unione Europea che sembra ora tanto importante per il paese. I pesciolini rossi bollono in pentola, cari amici delle isole britanniche …

Il fatto è che, specie in tempi di comunicazione facile e veloce, i coltelli della demagogia diventano armi a doppio taglio e chi di spada ferisce, come dice il Vangelo, perisce della stessa spada. Il binomio referendumXindipendenza=Leave, se applicato in Scozia e Irlanda del Nord, può fare davvero male alla corona britannica (olimpicamente assente dal dibattito del suo popolo sull’appartenenza all’Europa, Long live the Queen). Non è finita. Circola, effetto del momento ma pur sempre da registrare, un’altra petizione per staccare Londra (8,6 milioni di abitanti per il 37% nati all’estero, con il musulmano Sadiq Khan sindaco succeduto all’antieuropeista  Boris Johnson) dal resto del paese e tenerla in Europa. Sia Lexit, dicono i promotori, ovvero London Exit. Mentre il regionalismo cooperativo garantisce le minoranze etniche, religiose, sociali aprendole al dialogo ampio e alla società aperta, calmandone così le paure attizzate dai secoli di oppressione da parte delle maggioranze, il ritorno agli stati nazionalistici ravviva la percezione del rischio, e se ne cerca la fuga.

La cancelliera Angela Merkel, con il consueto adorabile linguaggio da maestrina (ex)prussiana, dopo aver in passato richiamato i paesi sud europei a far bene i compiti a casa per non finire dietro la lavagna del successivo Consiglio europeo, garantisce ai britannici negoziati di uscita in un clima “buono ed obiettivo”, aggiungendo che “non c’è bisogno di essere cattivi”. Al tempo stesso chiede a Londra di far presto a presentare le carte per andarsene. Il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker è anche più chiaro. “Non sarà un divorzio consensuale”, il che significa che Londra dovrà pagare i danni, raccogliere i cocci dei piatti rotti in casa europea e portarseli oltre Manica (gli inglesi sono abituati: dalle colonie abbandonate hanno caricato sulle navi sino all’ultimo bullone). L’UE ha bisogno che il processo sia rapidissimo per non pagare dazi eccessivi ai mercati finanziari e alla speculazione sull’euro, e non prestare il fianco al dissenso politico interno. Figurarsi che David Cameron, in sintonia con il leader della campagna antieuropeista e aspirante successore a Downing Street, Boris Johnson, ha precisato: “Nessuna precipitazione». Nelle intenzioni britanniche la procedura di uscita dovrebbe partire ufficialmente in autunno”. Certamente: 27 paesi ai comodi di Londra. Ancora Juncker: “Non capisco perché il governo abbia bisogno di aspettare per inviare o meno la lettera di divorzio a Bruxelles. Vorrei riceverla subito”.

Intanto, al Consiglio europeo, fra pochi giorni, Cameron siederà di diritto al tavolo, ma non verrà invitato a cena, dove si parlerà di come accompagnare il suo paese alla porta di Calais, il prima possibile, e con meno danni possibili per paesi dell’Unione danneggiati da decenni di pessimo comportamento britannico dentro le istituzioni sino all’attuale drammatico vulnus. Che di questo si tratti, lo dimostrano anche le dimissioni immediate del membro britannico della Commissione europea, Jonathan Hill, responsabile della stabilità finanziaria dei servizi finanziari e del mercato unico dei capitali (si noti come opera lo stile politico nella UE che nazionalisti e populisti europei raccontano come oppressore delle nazioni che ne fanno parte: il Regno Unito non ha adottato l’euro, ma gli affari finanziari sono affidati al commissario britannico …). “Non credo sia giusto per me continuare come commissario come se nulla fosse accaduto”, ha detto Hill. C’è da augurarsi altrettanto galateo istituzionale, quando, nel secondo semestre del prossimo anno, a Londra spetterà la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea … E qui un’altra domanda: senza più paesi membri di madrelingua inglese, che ne sarà dell’”inglese” prima lingua dell’UE con tutti privilegi del caso concessi ai britannici?

Tra le cose accadute in questi pochi giorni, c’è il senso di trionfo che agita le destre nazionaliste europee. Ci sarà effetto imitazione: dove previsto dalle leggi, si terranno altri referendum. Taluni di questi potranno risolversi in voto per l’autoesclusione dalle istituzioni unionali. Il fatto è che la gestione del potere politico ed economico, in questa fase storica, trasforma gli stati e le loro unioni, inevitabilmente in strutture soprattutto tecnocratiche. Di conseguenza perdono la capacità di interloquire con gli elettori in modo semplice, con il linguaggio diretto che questi comprendono immediatamente e senza fatica, e che ritrovano nei leader politici semplificatori, che toccano le corde dei sentimenti e dei ricordi, dove è più facile mentire perché la memoria non sempre aiuta a discernere il vero dal falso. Inoltre, mentre i governanti e le strutture tecnocratiche parlano per lo più il linguaggio dei dati, controllabili e verificabili, i demagoghi si muovono sul filo della realtà “percepita” se non “inventata” e sempre gonfiata, esagerata, comunque distante da quella effettiva. Si legga cosa riesce a dire un poveretto come Matteo Salvini in questi giorni. Tutti sanno che controlla un partito nato per staccare l’Italia cosiddetta padana dal resto del territorio statale, su base di discriminazione persino razzista contro i “terùn” del meridione. Spudoratamente si erge ora a campione della nazione italica contro, udite udite, “massoni, banchieri e burocrati sovietici di Bruxelles!”. Con Totò: “Ma ci facci il piacere”, con a seguire la sonora spernacchiata!

Come negli Stati Uniti cresce il livore contro “quelli di Washington”, e nel Regno Unito contro “quelli di Londra” e lo si è visto in questo referendum diretto anche contro di loro (eccezion fatta, ovviamente, per la casa reale, che pure a Londra stabilmente vive …), in Europa è ancora più facile prendersela con Bruxelles, dimenticando che quanto le istituzioni comuni sono abilitate a fare lo decidono i governi dei paesi membri, che sono anche all’origine delle forti limitazioni all’attività unionale dei presenti trattati.

E però i fatti vanno oltre la demagogia e gli appelli sconsiderati allo stomaco degli elettori. Ad esempio, in Britannia, la perdita di peso della sterlina e una recessione sono purtroppo all’ordine del giorno. Anche  grazie al ruolo britannico nell’UE, si era sviluppata un settore finanza e servizi eguale a quasi il 12% del prodotto interno lordo britannico. 190 miliardi di sterline, e un surplus annuo di 77 miliardi, con 1,3 trilioni di miliardi di asset in euro. Una ricchezza che ruota intorno a 155 istituti finanziari, provenienti da tutto il mondo, che dà lavoro, diretto e indotto, a 2.200.000 persone, 2/3 dei quali nella sola Londra. I Ceo delle varie HSBC, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Deutsche Bank, alla vigilia del voto avevano detto con chiarezza che la loro convenienza a stare sulle rive del Tamigi sarebbe scesa vertiginosamente e che sarebbe stata forte la tentazione di andarsene in città come Dublino, Francoforte, Parigi. Dopo il voto, anche Rbs, Barclays e Lloyds si sono espressi in quel senso. Nel manifatturiero grandi gruppi come Rolls Royce, Nissan, Easy Jet hanno finanziato la campagna remain. Altri stanno prendendo posizione in queste ore: Johnson Matthey, esponente di punta mondiale di chimica e tecnologia, ha fatto sapere che sta valutando come andarsene dal Regno Unito.

Si ricorderanno le proteste di tanti inglesi contro il tunnel sotto la Manica. In prima fila erano agricoltori e allevatori della vasta campagna sotto Londra. Nulla da eccepire sulle scelte dei popoli, purché questi siano consapevoli degli effetti, e purché le scelte non danneggino altri popoli. Altrimenti questi non potranno che reagire. Intanto reagiscono anche i partiti britannici, Nel Labour si dimettono alcuni ministri ombra accusando il partito di aver gestito male la campagna. Le divisioni tra i conservatori sono ampiamente note.

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Luigi Troiani

Luigi Troiani

Insegno Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American Educators, ho dato vita al suo “Programma Ponte” del quale sono stato per 15 anni direttore scientifico. Ho pubblicato saggi e libri in Italia, tra gli altri editori con Il Mulino e Franco Angeli, e in America con l’editore Forum Italicum a Stony Brook. Per la rivista Forum Italicum ho curato il numero monografico del maggio 2020, dedicato alla “letteratura italiana di ispirazione socialista”. Nel 2018 ho pubblicato, con l’Ornitorinco Edizioni, “Esperienze costituzionali in Europa e Stati Uniti” (a cura). Presso lo stesso editore sono in uscita, a mia firma, “La Diplomazia dell’Arroganza” e “Il cimento dell’armonizzazione”. La foto mi mostra nella maturità. Questa non sempre è indizio di saggezza. È però vero che l’accumulo di decenni di studi ed esperienze aiuta a capire e selezionare (S. J. Lec: “Per chi invecchia, le poche cose importanti diventano pochissime”), così da meglio cercare un mondo migliore (A. Einstein: “Un uomo invecchia quando in lui i rimpianti superano i sogni”).

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