È molto difficile dopo i drammatici fatti di Orlando, sostenere l’abilità di Donald Trump nella gestione della sua comunicazione in generale, e dei canali social in particolare. Eppure una delle chiavi della grande rimonta del Tycoon di questi mesi- come tutti in America sottolineano – è stata proprio la sua capacità di usare, manovrare e gestire i social. Tanto che nemmeno i suoi clamorosi autogol sono stati sufficienti a tenerlo fuori dal gioco.
Fin da quando Donald Trump ha iniziato a trasformare le risate di scherno in consensi e voti, garantendosi infine un posto nel ballottaggio finale con la Clinton, a molti italiani è venuto in mente il paragone con Silvio Berlusconi. Entrambi ricchi, entrambi proprietari di media, amanti della bella vita, non più giovani, senza eccessivi scrupoli e con il vizio delle belle donne. Ed entrambi abili a comunicare con il popolo, pur se con strumenti del tutto diversi. Silvio con le televisioni e i poster, Trump soprattutto con gli smartphone.
Tutti in Italia ricordiamo che quando l’allora sfidante Bersani si presentò nella sua campagna pubblicitaria con le maniche della camicia rimboccate, la gente non aderì. Il messaggio trasmetteva fatica. E tutti ricordiamo ancora meglio come invece il “nuovo miracolo italiano” di Berlusconi fece allegri proseliti. Perché il miracolo, sostanzialmente, avviene senza nessuno sforzo da parte di chi ne usufruisce.
Saper intercettare i bisogni più semplici della gente era una dote del Cavaliere ieri, come lo è di Trump oggi. Anche se i mezzi usati in campo sono del tutto stravolti.
La cosa forse più interessante del miliardario-editore è che sia andato forte proprio sui media che costano meno. Trump domina praticamente su tutti i social che esistono, da Facebook a Twitter, Periscope, Vine, Instagram e YouTube. Secondo Dan Pfeiffer, il guru di Obama, Trump è un vero talento naturale in questo campo, e ci scorrazza come un pony sulle praterie. Naturalmente non è esattamente così che stanno le cose. Il talento individuale in macchine così complesse conta fino a un certo punto. Tutto il lavoro lo fanno loro, i “social guys”, che certamente non da volontari hanno guidato molto bene la schiacciasassi del ragazzo dal ciuffo rosso. A capitanarli c’è un tipo di 29 anni, Justin Mc Conney, figlio di un vecchio collaboratore di Trump (in fondo è la stessa farse che sentiamo spesso da noi: “c’è mio nipote bravo a usare i Social, chiamiamo lui”, solo che questo era bravo davvero), che cinque anni fa convinse Trump della necessità di investire sui social. In questo lasso di tempo gli amici di Facebook sono passati da centomila a 8 milioni, i followers su Twitter sono diventati 6 milioni, quasi due milioni su Instagram, e le views su You Tube hanno superato i 20 milioni.
Donald Trump, che non ha mai vinto il premio come uomo più modesto d’America, si è più volte autoproclamato l’Ernest Hemingway dei 140 caratteri. In verità il suo linguaggio è super semplice, schietto, aggressivo. Si rivolge alla sua avversaria rimasta in campo chiamandola sempre in modo dispregiativo “crooked” o “heartless” Hillary.
Hemingway forse non avrebbe apprezzato questa semplicistica rudezza. Usa argomenti come l’ISIS o gli immigrati per trovare consensi facili nei ceti più scontenti. Nessun linguaggio laterale.
Ma non è solo su Twitter che gli americani hanno iniziato a sposarlo.
Prendiamo ad esempio Instagram. Qui la maggior parte di suoi post lo ritraggono in video mentre guarda fisso in macchina, con i suoi occhietti così simili alla sua bocca (tre fessure identiche in una sola faccia, rossa) e dice le cose che il suo popolo probabilmente ama sentire. Considerati “the future of American politics”, questi video di 15″ sono estremamente semplici, niente di creativo o di elaborato. Esattamente come lo erano i poster 6×3 di Silvio. Siamo lontanissimi dalle celebri campagne che portarono lontano Ronald Reagan, su tutte “The Bear”, che agitava lo spauracchio dell’orso sovietico con un testo sintetico e astuto dubbio finale. Eppure se ci pensiamo bene anche allora l’ex attore agitava la bandiera dell’orso russo come oggi Trump innalza il cartello contro Messicani o Islamici.
Dall’altra sponda, Hillary Clinton sembra paradossalmente molto meno a suo agio con gli strumenti più democratici che esistono. Oltre a tutti i social tradizionali (su Twitter è per la verità spesso pungente ed efficace) usa frequentemente Snapchat, con cui parla alla fascia più giovane, ma non si muove con la stessa naturalezza dell’attuale inquilino della Casa Bianca. E non sarà probabilmente mai brava come il più credibile presidente degli Stati Uniti, Frank Underwood.
Così, analizzando un po’ tutto, viene fuori che le principali strategie social che Trump ha usato per farsi amare sono state più o meno queste:
1. Su tutte: parlare la lingua delle persone. Sempre la cosa più difficile e più efficace in politica. Usando una narrativa semplice e dritta al punto, focalizzata su pochi ma chiari temi.
2. Toccare le corde emotive e le verità che sono rilevanti per tutti. Non sempre nelle discussioni elettorali si scende sul piano emotivo. Lui cerca sempre di farlo.
3. Riadattare qualsiasi discussione politica al suo linguaggio, e riformularla secondo i canoni verbali che preferisce lui. Avete presenti quelli che funzionano meglio se c’è baraonda e schiamazzi? Lui è uno di loro. Solo più ricco.
4. Dire spesso cose inaspettate. Puoi predire cosa dirà la Clinton in una certa occasione, ma difficilmente puoi prevedere la prossima sparata di Trump.
5. Scrivere tanto, tantissimo: lo staff del Tycoon viaggia sui 20-30 post al giorno. Ma non su Facebook, dove al massimo si ferma a 3.
6. Essere rapidissimi: i post di Trump arrivano immediatamente dopo il loro concepimento. Questo perché è lui in persona ad approvarli. E per i social network, questo è quasi tutto.
Forte di questo bagaglio e di queste certezze, Donald Trump viaggia oggi spedito verso un traguardo che solo qualche mese fa sarebbe stato impensabile. E lo fa usando le stesse armi che nel 2008 – sebbene non fossero così potenti come lo sono oggi – portarono alla Casa Bianca l’attuale inquilino Barak Obama, alimentate da parole come “Change” e “Hope”: i social network. In Florida se lo ricordano ancora tutti benissimo.
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