In una bara, senza vita, a ventotto anni. In questo modo Giulio Regeni è tornato in Italia. Uno di quei ragazzi brillanti, smart si direbbe ora, abituati a girare il mondo. Quei ragazzi che scelgono una strada ardua come quella della ricerca, e che finiscono per brillare negli angoli più remoti, dando lustro all’Italia. A volte però succede che queste piccole donne e questi piccoli uomini vadano a scontrarsi brutalmente contro il corso della storia con la esse maiuscola. Proprio come era accaduto pochi mesi fa a Valeria Solesin, strappata via dalla Terra dalla follia dell’ISIS in quel di Parigi. Oggi il corpo martoriato di Giulio Regeni è giunto a Roma accolto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando: sarà poi trasferito all’istituto di medicina legale dell’Università La Sapienza, dove sarà eseguita l’autopsia disposta dalla Procura di Roma che indaga per omicidio volontario. «Sono qui per affermare il mio profondo cordoglio e quello del Governo, e la vicinanza alla famiglia Regeni. Ma sono qui anche per affermare la volontà del Governo affinché sia raggiunta al più presto la verità e che si fatta giustizia», così ha commentato il ministro all’arrivo della salma. E mentre un rapporto preliminare è già stato rivelato dai media egiziani, è di queste ore la notizia, diffusa da una fonte della sicurezza al Cairo, dell’arresto di due persone sospettate dell’omicidio. Non è chiaro se si tratti di due egiziani o stranieri e in quali circostanze possano essere venuti in contatto con il giovane ricercatore. Notizia, poi, prontamente smentita questa mattina dal portavoce del ministero dell’Interno egiziano. «Siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito cosa sia successo. Credo che occorra lavorare per arrivare alla verità e che bisogna che questo lavoro possa essere fatto assieme», con queste parole ha accolto la notizia dei presunti arresti il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Parole condivise dal capo dello Stato Sergio Mattarella e dal premier Matteo Renzi che hanno chiesto e ottenuto la tempestiva restituzione della salma.
Giulio Regeni era stato ritrovato morto in Egitto il 3 febbraio scorso sulla strada tra il Cairo e Alessandria. “Chiari segni di percosse e tortura”, questi i rilievi da parte della Procura di Giza a cui si sono aggiunti nel corso delle ore altri dettagli inquietanti: segni di accoltellamento sulle spalle, tagli a naso e orecchie, ma anche di bruciature di sigaretta che avrebbero provocato al giovane una morte lenta, che insinuerebbe il dubbio di aver subito torture. Contrastanti, invece, le dichiarazioni provenienti dall’ufficio stampa del ministero dell’Interno egiziano che confermerebbe la presenza di lividi ed abrasioni sul corpo del ragazzo ma escluderebbe la presenza di segni di tortura. Una versione ancora differente, invece, quella fornita dalla direzione della Polizia di Giza, secondo cui sarebbe da escludere il movente criminale, caldeggiando l’ipotesi dell’incidente stradale, così stridente rispetto ai vari dettagli notati sul corpo, in particolare quello della nudità dalla cintola in giù.
Giulio Regeni, originario di Fiumicello (Udine), era un dottorando di ricerca all’Università di Cambridge e, dal settembre scorso, si trovava al Cairo per una ricerca-tesi sull’economia locale. Il giovane non aveva dato più sue notizie dal 25 gennaio scorso, risultando misteriosamente scomparso. Era stato visto vivo per l’ultima volta alle ore 20:00 di quel giorno presso la stazione metro Bohoot, nel quartiere di El Dokki: si stava recando a casa di amici nel quartiere di Bab Al Louq, nei pressi della celebre piazza Tahrir. La scomparsa era avvenuta proprio quel 25 gennaio in cui in Egitto si erano tenute varie manifestazioni per celebrare l’anniversario delle proteste esplose nel 2011 e che avevano segnato l’inizio della primavera araba egiziana. La rete di amici e parenti si era immediatamente attivata sui social network attraverso l’hashtag #whereisgiulio, lanciando appelli in svariate lingue a chiunque ne avesse notizie. Ma senza successo. Nessuna novità per un’altra lunga settimana. Giulio non collaborava con Il Manifesto come detto in precedenza. Smentisce questa voce sua mamma Paola Deffendi che, attraverso l’avvocato di famiglia, ha teso a precisare come il giovane avesse proposto al quotidiano un pezzo che non era stato ancora preso in considerazione. L’articolo, poi pubblicato anche dal Manifesto, era invece stato pubblicato sul sito Nena-news.it, agenzia di stampa del Vicino Oriente, con l’uso dello pseudonimo Antonio Drius. Agenzia con la quale Giulio non collaborava e con la quale, come specificato in comunicato dallo staff di Nena-news, aveva avuto un solo contatto. Nel reportage si racconta del mondo del sindacalismo indipendente: «Al Sisi, scriveva Regeni, ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del Paese mentre l’Egitto è in coda a tutte le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono». Un intreccio sanguinario quello che descrive l’Egitto di oggi, un sistema brutale dove esercito, polizia, governo e bande paramilitari costruiscono una rete di terrore volta a mantenere lo status quo post-Tahrir. Un paese dove il processo di radicalizzazione non tende a fermarsi e che impedisce, di fatto, una ricostruzione tra forze moderate dialoganti. Di tutto questo Giulio voleva parlare nella sua ricerca e nei suoi pezzi, con la conoscenza e lo studio che lo animavano fin dalla giovane età (era stato alunno del Collegio del Mondo Unito di Duino prima di approdare a Cambridge), con la curiosità e la sofferenza che qualsiasi ragazzo prova di fronte ad un mondo che vorrebbe cambiare, con l’ingenuità dei vent’anni che può far credere che non si possa morire solo perché si è voluto studiare e capire.
Ed è proprio in quel reportage che potrebbero trovarsi le risposte che tutti stanno cercando. Negli ambienti del sindacato, nella rete di amici e conoscenti che lo aiutava nelle sue ricerche. Quelle stesse ricerche che, presumibilmente, lo hanno reso un disturbatore che avrebbe potuto raccontare troppo sulla stampa e sul web, in ambienti di discussione molto seguiti da attivisti e oppositori del regime egiziano.
Ancora più inquietante appare, in queste ore, la somiglianza con un altro caso, perfino nei dettagli e nelle date: quello di Mohammed Al Jundi, ventottenne impegnato contro il regime, scomparso proprio il 25 gennaio di tre anni fa. Arrestato e torturato dalla polizia, il ragazzo era stato ritrovato cadavere alcuni giorni dopo. Anche per Mohammed le prime perizie parlarono di “incidente stradale”.
Nel frattempo, le forze investigative egiziane che nei prossimi giorni lavoreranno al fianco di quelle italiane, promettono la massima collaborazione. Ma come cambierà il rapporto Egitto-Italia dopo la morte di Giulio Regeni, qualora le forze egiziane fossero ritenute responsabili della sua morte? Va ricordato, infatti, che l’Italia è il primo partner commerciale dell’Egitto in Europa e il terzo a livello mondiale (dopo gli USA): di fronte a questo stato di cose che valore assume la morte, già di per sé terribile, di questo ragazzo? Forse un’ennesima dimostrazione del basso profilo diplomatico dell’Italia (vedi il caso dei Marò) che, nemmeno dall’alto di una condizione di partenariato economico, riesce ad apparire temibile e, quindi, credibile. Talmente poco credibile da non impedire ai bravi del regime egiziano di torcere anche solo un capello ad un giovane italiano, “reo” soltanto di aver voluto studiare.
* Francesca Salvatore ha una laurea in Scienze Politiche e un Ph.D. in Relazioni Internazionali con una ricerca sulle relazioni India-Stati Uniti negli anni dell’amministrazione Kennedy. Oggi collabora con il Centro Studi Relazioni Atlantico-Mediterranee (CeSRAM). Un piede nell’accademia, l’altro nel giornalismo, negli ultimi anni ha vissuto tra India, Stati Uniti, Gran Bretagna, Salento e…il resto del mondo. È per questo che tutti la chiamano La ragazza con la valigia.