Si è riflettuto poco e male, probabilmente per la pausa estiva, sull’episodio che nella valle dei Templi di Agrigento ha portato, in settimana, a demolizioni di manufatti abusivi. Contro il risibile trionfalismo di giornali e tv che hanno visto accendersi un segnale di conforto per il rispetto di leggi e ambiente, l’accaduto accentua il giudizio negativo sui comportamenti che stato e altri soggetti pubblici mantengono in materia di difesa del territorio e, più in generale, della legalità. I fatti.
Il 24 agosto circola la notizia che, in applicazione di sentenze passate in giudicato nel 1998 (sic!), le ruspe stanno abbattendo immobili abusivi nel parco archeologico della valle dei Templi, testimonianza incomparabile della colonizzazione greca della penisola italica e per questo dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Una veloce verifica appura che si sta abbattendo un muretto di cinta in tufo, alto circa 90 centimetri e lungo una ventina di metri, nulla di più. Non solo: l’azione è ostacolata dagli avvocati del proprietario, forti di norme procedurali. Passa un giorno, e le ruspe affrontano coraggiosamente un ovile. Di questo passo, dicono i gazzettieri, si va entro inizio ottobre all’abbattimento degli otto fabbricati abusivi identificati dal comune.
Sempre che le cose procedano come da copione, si osserva che otto piccole demolizioni richiederanno un mese e mezzo di lavoro, e che sono comunque iniziate, a 17 anni dalle sentenze, solo in seguito a reiterate lettere della procura, con finale minaccia di abbattimenti ad opera della stessa e azione per abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio contro i responsabili del Comune. Si osserva poi che il totale degli abusi “ufficializzati” nella valle è di una trentina, quindi dell’altro 2/3 e passa d’abusivismo il Comune non fa parola. Peraltro circola un censimento di immobili abusivi nella zona, di un paio d’anni fa, che porterebbe a 650 il totale dei manufatti da abbattere.
L’episodio è esemplare per come la lentocrazia scardini il nostro sistema democratico, contribuendo al potere di un “dittatura di fatto”: il sistema che salda, a seconda delle situazioni, gli interessi di tutti o di alcuni dei quattro poli che costituiscono il “problema italiano”: delinquenti, politici, burocrati, magistrati.
Si ha lentocrazia, “il potere del rallentare”, quando il potere, da parte di stato o pezzi della pubblica amministrazione, viene esercitato attraverso l’uso distorto di discrezionalità e procedure, in modo tale da produrre inefficienza e/o inazione di chi, al contrario, dovrebbe intervenire con immediatezza ed efficacia per prevenire o sanare situazioni che ledono l’applicazione delle leggi. L’area privilegiata di esercizio della lentocrazia è nell’ambiente e nelle opere pubbliche, dove grande è la torta e di conseguenza l’appetito dei lentocrati trova soddisfazione. La tragica situazione ambientale e paesaggistica di un paese, il nostro, dove nessuna compagnia di assicurazione accetta di assicurare gli immobili per il rischio di frana, ne è il risultato più evidente. D’altronde, se la legge non riesce ad essere applicata in un luogo, la valle dei templi, che è sotto gli occhi del mondo intero, possiamo sorprenderci di come la lentocrazia sappia gestire scandali eterni come la Salerno/Reggio Calabria, l’Ilva, le terre dei fuochi (dopo il casertano tocca a san Gillio nel torinese)? E aspettiamo sempre di sapere cosa san Gennaro deciderà di fare delle centinaia di migliaia di napoletani e campani aggrappati sulla bomba ad orologeria del Vesuvio, nel totale disinteresse della lentocrazia.
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