
Nel film a cartoni animati “Ratatouille” che narra le avventure di un topo parigino con la passione per la gastronomia, il “cattivo” di turno, rappresentato dal perfido critico d’arte culinaria Anton Ego, si redime, alla fine della storia, dopo aver assaggiato un piatto i cui sapori lo riportano magicamente alla sua infanzia francese e alle perdute premure materne.

Sabato scorso, durante la mia visita all’edizione 2018 del Fancy Food Show al Jacob Javits Center di Manhattan, mi è capitata un’esperienza simile, grazie ad un’acciuga siciliana assaggiata allo stand de La Vucciria, il consorzio alimentare siciliano che prende il nome dal famoso mercato storico palermitano dove, come spiegato nel catalogo illustrativo, “ancora oggi si tramandano gli odori, i sapori e i colori di una delle più importanti piazze commerciali popolari”.
Il gusto di quell’acciuga, ha avuto il potere sinestetico di trasportarmi lontanissimo: agli anni delle mie interminabili vacanze estive italiane con quel sapore di mare e quella freschezza che rendono il pesce del Mediterraneo incomparabile rispetto alla gran parte di quello nord-atlantico.
E’ questo il vero piacere del mangiare; del cibo come esperienza e non solo come mezzo di sostentamento. Ed è per questo che i numeri del settore industriale dello Specialty Food, cioè dei prodotti alimentari di qualità specifici di determinate zone geografiche, continuano a crescere avendo raggiunto negli Stati Uniti un fatturato di oltre i 140 miliardi di dollari e una presenza di mercato che comprende oltre il 65% del consumo alimentare totale.

Con questi numeri alle spalle, non c’è da sorprendersi se l’appuntamento annuale con il Fancy Food Show di New York attrae una quantità di espositori sempre più vasta ed eterogenea.

Lo spazio espositivo da coprire è pari a quello di sei campi da football dove si possono trovare specialità alimentari provenienti da ogni angolo del pianeta ma con l’Italia ancora una volta a fare la parte del leone con una miriade di padiglioni tematici dedicati alla vastissima tradizione alimentare del Belpaese.
Una conferma quindi, che almeno nel settore dell’alimentazione, l’Italia continua ad essere una super-potenza economica conscia che il suo “petrolio”: il cibo, la cultura gastronomica e la sua specificità geografica rappresentano un patrimonio incommensurabile.

Una potenza, tra l’atro, che finalmente sembra diventata consapevole di sé stessa e dei suoi punti di forza: l’enfasi sulla qualità piuttosto che sul volume e la capacità di non piegarsi necessariamente ai diktat del mercato ma semmai di imporre al mercato stesso i suoi standard qualitativi e i suoi tempi di produzione.
Standard che spesso, in un ambito come quello agricolo ad esempio, seguono ancora il ciclo delle stagioni o quello delle festività del calendario.
E’ il caso di Mad 4 Italy, un’azienda marchigiano-abruzzese che propone, nella sua vasta gamma di prodotti, gli “invasati”: una perfetta simbiosi di tradizione e innovazione. Si tratta di una confezione esteticamente molto attraente che contiene tutti gli ingredienti già dosati per varie ricette sia dolci che salate e che hanno solo bisogno di essere mescolati e cotti. Un’idea che pesca dalla tradizione nostrana della conserva e la reinventa per le esigenze del consumatore moderno disposto a cucinare in casa ma a corto di tempo e di esperienza.

I prodotti di Mad 4 Italy sono un esempio di quella vocazione artigianale che rappresenta da sempre il fiore all’occhiello del Made in Italy e che non si lascia compromettere dal “bullismo” del mercato di massa.
“Un cliente a cui è piaciuto il nostro panettone ‘fai da te’ – ci racconta il presidente della ditta Giuseppe Cieri – ci ha contattato di recente dicendo che era rimasto molto soddisfatto del prodotto che aveva provato a Natale scorso e che era interessato ad un’altra fornitura in questi mesi. La mia risposta è stata che sarei stato molto contento di inviargli altri panettoni ma certo non prima del prossimo Natale perché quelli sono i nostri tempi di lavorazione”.

Una scelta, quella di preferire alla quantità una produzione limitata ma di alta qualità, che rappresenta anche una strategia economica precisa in quanto consente alle aziende italiane di competere nell’ambito di quello che sanno far bene (qualità) e di programmare in maniera appropriata i propri investimenti.
“Per rimanere concorrenziali, la nostra azienda deve essere adattabile – ha continuato Cieri – che significa che deve essere in grado di offrire prodotti diversi in momenti diversi che significa, a sua volta, investire in macchinari che consentono di mantenere questa flessibilità produttiva. Si immagini che noi abbiamo delle macchine che ci permettono di produrre sughi per la pasta in un certo periodo dell’anno e marmellate in un altro. Identificare la propria azienda con un solo prodotto o con un numero limitato di prodotti è ormai insostenibile”.
Un altro tema ad emergere dalla fiera è stato quello dell’interdipendenza economica.

Pastifici italiani rilevati da multinazionali argentine che acquistano materie prime dall’Est europeo grazie a finanziamenti americani. O specialità vietnamite prodotte con macchinari tedeschi assemblati in Cina.
Anche nell’ambito alimentare la parola d’ordine del mondo globalizzato è interdipendenza: le fortune di un’azienda e di un paese sono inestricabilmente legate a quelle di un altro.
Un concetto che sembra ormai chiaro a tutti tranne che all’attuale inquilino della Casa Bianca le cui idee economiche sul commercio estero sono sconfortantemente ancorate ad una conflittualità da inizi ventesimo secolo.