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Tu vuo’ fa’ l’americano, ma si’ nato in Italy: storia del cocktail italiano più noto

Dalla Milano-Torino al successo globale: la storia e la preparazione del cocktail italiano per eccellenza

Alessandra MorobyAlessandra Moro
Tu vuo’ fa’ l’americano, ma si’ nato in Italy: storia del cocktail italiano più noto

Etichetta Carpano Vermouth

Time: 4 mins read

Tu vuo’ fa’ l’americano, ‘mericano, mericano, ma si’ nato in Italy… cantava allegramente il grande Carosone nel ’56: parole che possiamo riferire ad uno dei cocktail più noti globalmente, appunto l’Americano, la cui genesi è autenticamente italiana. Interessante il (placido) dibattito sull’origine del nome: da amaricare, verbo tardo-latino che significa “donare un gusto gradevolmente amaro”, da cui l’aggettivo “amaricante”, che rappresenta la base aromatica di molti aperitivi e digestivi? La risposta è più storica. Per completezza, diremo anche che aperitivo deriva dal latino aperitivus, “che apre”, ad indicare una bevanda capace di “aprire” lo stimolo dell’appetito.

A ricostruire per noi la vicenda è Paolo Azzoni, esperto bartender, formatore in area specialistica bar cocktail e distillati e attualmente capo barman al Due Torri Hotel, cinque stelle nel cuore di Verona.

«L’ Americano verosimilmente nasce intorno al 1860 al Caffè di Gaspare Campari a Milano, come variazione del già classico cocktail Milano-Torino, assai apprezzato dai turisti americani, che gradiscono, tuttavia, un’aggiunta di soda ai due liquori presenti. Anche il preesistente Mi-To non ha un inventore certo, probabilmente è frutto di esperimenti amaricanti con il fernet. Perché Milano-Torino? Sono, all’epoca, i centri più di spicco, tanto che il pavese Gaspare, prima di far fortuna a Milano, va ad imparare in Piemonte l’arte liquoristica e nei primi tempi creerà diversi liquori prima di approdare al Campari che, nei primi tempi, sarà comunque affiancato da altre specialità, ad esempio il “cordial Campari” a base di lamponi».

Paolo Azzoni, docente nel settore bar, bartender e capo barman al Due Torri Hotel***** (Verona)

Un po’ di didattica: bitter è una categoria con alcol base che non è il vino: alcol/botanica amaricante/zucchero/acqua (per abbassare il grado). Il vermouth – dal tedesco Wermut, che definisce il principale aromatizzante, l’artemisia, più conosciuta come assenzio – è invece un vino fortificato: vino/zucchero/alcol/base botanica. Il fernet è categoria a sé, senza zucchero: alcol/base botanica/acqua.

«I prodromi risalgono addirittura al 1786 a Torino, quando l’erborista Antonio Benedetto Carpano, garzone di bottega, riformula il vermouth come lo conosciamo noi attualmente, miscelando erbe, spezie e vino moscato. Un assaggio gradito dal re Vittorio Amedeo III ne decreta l’immediato successo e la diffusione; dal 1820 si assisterà al passaggio da bottega a fabbrica e, dopo qualche decennio, ad industria. Con Carpano il liquore – appannaggio dei frati fino al Quattrocento, quando la pasticceria napoletana ne fa anche un prodotto a scopo edonistico/degustativo – esce dalle cucine come ingrediente e diventa un momento di piacere mondano. Nondimeno, la filosofia di associare ad un liquore il pensiero di proprietà curative rimarrà fino alla fine dell’Ottocento, cito il fernet Branca per il colera ed il ferro-china Bisleri come ricostituente».

Non a caso è Torino che adesso ospita, nella cornice storica del Museo nazionale del Risorgimento, il Salone del Vermouth, da cui sono appena uscite proposte innovative come l’accompagnamento ad un dessert o al cioccolato, meglio se fondente.

Un’altra possibilità posticiperebbe la nascita del nostro euforico protagonista al 1933, in omaggio al pugile Primo Carnera detto “l’americano” per i suoi successi negli USA e sulla scorta dell’italianità degli ingredienti: il bitter di Milano e il vermouth di Torino. Nella stessa epoca si colloca una ulteriore (debole) spiegazione: abile marketing della Martini & Rossi per l’esportazione oltreoceano del proprio vermouth.

Incontrovertibile, comunque, la sua vivacità in quegli anni, documentata da pubblicazioni come “The artistry of mixing cocktail” di Frank Meyer del Ritz Bar di Parigi, 1936, e “Cafè Royal Cocktail book”, 1937, di William Tarling. Dal 1986 l’Americano è inserito nella lista dei cocktail IBA/International Bartenders Association.

E la sua vivacità oggidì? «Lo possiamo definire come il primo e tuttora apprezzatissimo cocktail italiano – conferma Paolo – grazie alla persistenza aromatica, al bilanciamento dei componenti, oggi anche alla facilità di realizzazione. Ieri un po’ meno, se teniamo conto, ad esempio, di un aspetto secondario, ma non indifferente: l’evoluzione del ghiaccio, che un tempo non era di disponibilità immediata. Mi viene in mente il Liberty bar ad Asola, locale storico che vanta un arredamento del 1911, dove si possono ancora apprezzare i vecchi frigoriferi, ora ammodernati nella tecnologia, ma esteticamente intatti, lasciando immaginare quando a refrigerare erano dei blocchi di ghiaccio posti all’interno di apposite cavità»

Gestendo una clientela internazionale, riscontri differenze nei gusti? «Piace sempre e a tutti. Gli italiani lo chiedono fedelmente, anche nella sua forma più imperiosa, il Negroni. Se gli americani, all’epoca di Gaspare Campari, blandiscono la miscela con la soda, il conte Camillo Negroni qualche decennio dopo fa sostituire quest’ultima con il gin. Siamo nel 1919 al Caffè Casoni del barman Fosco Scarselli, a Firenze: un altro momento topico per la storia dei cocktail!».

Parlando di barman con un barman e di Americano, non si può non menzionare Jerry Thomas (Sackets Harbor, NY 1830 – New York 1885), che nel 1862 completa ”The Bar-Tender’s Guide” (o “How to Mix Drinks or The Bon-Vivant’s Companion”), primo libro sui cocktail pubblicato negli Stati Uniti, ove sono raccolte e codificate tutte le ricette della tradizione orale, nonché creazioni di Thomas stesso, ponendo i principi dell’arte della miscelazione. «Nel secolo XIX da barista si passa a barman e Jerry Thomas ha indubbiamente improntato la figura. Fu un personaggio estroso e, nel contempo, davvero competente; lavorò nelle maggiori città USA e poi in Europa, intrattenendo il pubblico dei locali come barman giocoliere, proponendo mix elaborati ed originali, distinguendosi indossando guanti e gioielli vistosi e utilizzando un’attrezzatura impreziosita da pietre e metalli pregiati. E guadagnando moltissimo per quei tempi, parliamo della seconda metà dell’Ottocento».

Veniamo al dunque: come si prepara un Americano? «Non è difficile: 3 cl di bitter, 3 cl di vermouth rosso, una spruzzata di soda in un bicchiere Old fashioned. La soda, tecnicamente, è acqua surgasata con un sale interno, il bicarbonato di sodio, mentre il selz è un’acqua surgasata e basta. Si versa direttamente nel bicchiere colmo di ghiaccio il vermouth rosso e il bitter, colmando con soda e decorando con una scorzetta di limone e una fettina d’arancia». Cheers!

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Alessandra Moro

Alessandra Moro

Di radici friulane, è nata a Verona sotto il segno dei Pesci; ha un fiero diploma di maturità classica ed una archeologica laurea in Lettere Moderne con indirizzo artistico, conseguita quando “triennale” poteva riferirsi solo al periodo in cui ci si trascinava fuori corso. Giornalista dell’ODG Veneto, lavora nel mondo della comunicazione come autrice e consulente, con esperienza nella stampa cartacea, radio, tv e web. La scrittura come passione, prima che come mestiere.

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