Chi prende spesso l’aereo di fronte alla parole “chicker or pasta” ha due reazioni possibili: la prima è una disperazione trattenuta, per educazione. L’altra è ilarità sfacciatamente esibita. Anche se il cibo non è tra i principali criteri di valutazione in fase di acquisto del biglietto – contano di più il prezzo, la comodità degli orari e le eventuali coincidenze – lo diventa una volta atterrati: dopo aver considerato la comodità del volo, cos’altro rimane da giudicare se non il servizio?
È opinione comune che il cibo sugli aerei sia qualcosa da cui stare alla larga. Per gli amanti della buona tavola declinata in tutte le sue forme quel che maggiormente inquieta quando si vola, particolarmente nelle tratte a medio e lungo raggio, non sono i ritardi sempre in agguato, i controlli di sicurezza, le transvolate per arrivare a destinazione, la maleducazione dei vicini di posto o la lentezza nella consegna del proprio bagaglio. La cosa che pesa di più per un buongustaio è il cibo servito che – si sa – non può competere nemmeno con le pietanze del ristorante dell’Autogrill. Qualità dei piatti a parte, occorre dire che la pressione dell’aria in una cabina d’aeroplano, unita alla poca umidità e le vibrazioni fanno sì che le papille gustative lavorino con più difficoltà, come quando si ha il raffreddore. In poche parole il sapore salato è ridotto del 20-30%, al pari di quello delle erbe aromatiche.
Dopo avere pagato centinaia di euro, una volta a bordo ai passeggeri viene consegnato il menù con pietanze dai nomi altisonanti e dagli accostamenti intriganti che lasciano presagire piatti di alta cucina. La realtà, tuttavia, è ben diversa: l’assistente di volo che si avvicina con il carrello portavivande formula la fatidica domanda che non lascia scampo ad ulteriori alternative: “Chicken or pasta? Pollo o pasta?”. Ecco allora che sul tavolinetto davanti a noi atterra un vassoio con un “qualcosa” spacciato per antipasto, un triste contenitore riscaldato nel forno elettrico dall’involucro appena tiepido ma dal contenuto incandescente evocante scene di fantozziana memoria, uno yogurt annacquato o un microscopico dessert al limite della congelazione, una pagnottina di pane industriale freddo, oltre a caffè o tè che rasentano l’imbevibile.
Negli anni ‘70 sui voli di linea per i pochi fortunati e facoltosi viaggiatori, i pasti consumati a bordo erano autentiche leccornie costituite da cibi freschi, ben cucinati ed elegantemente presentati, accompagnati da vini di prim’ordine. Caviale, filetti chateaubriand e cersises jubilé non venivano serviti solo nei migliori ristoranti di Parigi, ma anche a bordo dei Boeing 377 Stratocruiser di Pan American Airlines. Sprofondati su comode poltrone, a sorseggiare Martini e fare il tris di aragosta, i passeggeri si sentivano membri di una casta privilegiata.
Se i prezzi dei biglietti aerei nelle tratte a corto e medio raggio sono diminuiti in poco meno di 50 anni – applicando gli indici di rivalutazione del denaro – mediamente del 70% rendendo le tariffe accessibili praticamente a chiunque, la qualità e la quantità dei pasti a bordo hanno subìto una pedissequa discesa: si è passati dall’aragosta servita su stoviglie di porcellana inglese e posate in argento al misero sandwich al pollo cellofanato.
Oggi i maggiori vettori aerei, attraverso aziende specializzate in catering, offrono a bordo dei propri aeromobili centinaia di milioni di pasti (solo Emirates, la compagnia di bandiera dell’Emirato Arabo di Dubai ne serve qualcosa come 150.000 al giorno) con un giro d’affari annuale, a livello mondiale, di circa 10 miliardi di euro. Con l’incremento delle frequenze dei voli e soprattutto la guerra delle tariffe tra compagnie che comporta margini di guadagno sempre più ridotti, il servizio di ristorazione aerea ha assunto un ruolo sempre più strategico, soprattutto nei voli intercontinentali in Business e First Class, le tratte e le classi finanziariamente più remunerative. Questa situazione ha avuto non pochi risvolti negativi sul comfort dei passeggeri in classe economy, a cominciare dal servizio di catering (ogni singolo pasto costa alla compagnia mediamente 5-6 dollari e curiosamente oltre ai pasti per i passeggeri, si preparano anche quelli per l’equipaggio, sempre diversi per i due piloti per evitare il rischio di intossicazione di entrambi), dove la tendenza è ormai di eliminare colazione, pranzo e cena su tutti i voli con durata inferiore alle 2 ore proponendo in alternativa – ovviamente a pagamento – snack, panini e bevande.
Come detto, per attrarre sempre più i cosiddetti clienti “premium”, rendere più agevole il viaggio, soddisfare i loro palati e generare così maggiori profitti che, dopotutto, rappresentano il reale motivo di tutte queste attenzioni, quasi tutti i vettori aerei hanno deciso di puntare sul catering di qualità tra le nuvole sviluppando autentici menu gourmet offrendo assaggi della cucina tipica del paese di origine o pietanze con l’accento della destinazione.
E per fare questo, insieme alla cooperazione di rinomati cuochi stellati, le compagnie fanno ricorso anche alla scienza servendosi di veri e propri studi per ideare piatti sempre più raffinati e gustosi. I menù, infatti, durano mediamente due anni in classe economy e sono invece a rotazione stagionale per la Business e la First Class. Ricreare le condizioni per un’esperienza “aerogastronomica” a 11.000 metri nello spazio ristretto della cabina di un aereo è un’operazione molto complessa, di certo non destinata alla maggioranza dei viaggiatori, ma solo ai passeggeri di Prima Classe dei voli intercontinentali, coloro disposti a pagare anche 13.000 dollari per un biglietto di andata e ritorno. Aragosta più, aragosta meno…