Quando rimbalzo come una pallina dentro quel grande flipper che è l’America, da uno stato all’altro, dai grattacieli di Manhattan alle distese brulle e aride del Nebraska, dagli scenari adulterati di Las Vegas al Golfo del Messico, la buca dentro la quale finisco, in media dopo una decina di giorni di resistenza, è la pizza. Le squisite bisteccone di Chicago, le aragoste del Maine, i filetti di pesce gatto del Mississippi, le raffinate elaborazioni creole della cucina cajun di New Orleans, il ventaglio della gastronomia asiatica nelle Chinatown della Costa atlantica o l’alligatore fritto della Florida non bastano a placare il mio banale, perverso bisogno di una Margherita.
La regina della cucina partenopea per eccellenza – la verace pizza napoletana – è buona, è bella e invita alla convivialità. Ed è anche un alimento divertente perché può essere mangiata nel modo che si preferisce: con le posate, con le mani tagliata a spicchi oppure piegata a portafoglio. Luigi Veronelli, famoso gastronomo, la definiva così: «Solare, imitazione del sole, sole fatto piatto per le tue illuminazioni notturne: la pizza».
Trovare una pizza veramente italiana in Nord America – proprio come viene fatta da Napoli in giù – soprattutto a New York, non è impossibile, sia chiaro: grazie ad alcuni nostri giovani pizzaioli migrati più di recente che conducono una battaglia tutta in salita per rieducare i palati newyorchesi dopo più di un secolo di barbare contaminazioni. Tra le mie preferite come abitante saltuario di Manhattan ci sono Ribalta e Song’E Napule. Dei veri appassionati che si sono dati il compito di preservarne l’ortodossia in una metropoli dove la competizione al ribasso ha imposto la fetta di pizza a $1.00 – la famosa jumbo slice – vietando di chiedere che cosa ci sia dentro.
Lontana è infatti la pizza “Neapolitan Style”, lanciata dall’immigrato Gennaro Lombardi nel 1905 a Spring Street, nel cuore di Little Italy, così come indicato nella più dettagliata guida delle pizze etniche di New York, dal titolo pretenzioso A Complete Guide to New York City Pizza Style. Ben presto, quella pizza che ancora poteva dirsi italiana, è stata presa, stravolta, inglobata dalla cultura ospitante, che ne ha fatto un piatto nuovo, diverso, autonomo rispetto all’originale. Ed è quindi inutile ripetere che le pizze americane sono “troppo”: troppo grandi, troppo ricche, troppo condite, con un’accozzaglia di ingredienti buttati sopra alla rinfusa. Quelle pizze sono semplicemente un’altra cosa, con la loro dignità (anche se fatico ad immaginare quale) e le loro specifiche caratteristiche. Sarebbe come voler paragonare la paella spagnola ai risi e bisi veneti: sono pietanze accomunate dal riso, certo, ma nient’altro.
Così come è inutile criticare la Chicago-style stuffed pizza, un “monolite” esageratamente ricco e compatto da assomigliare più ad una grossa torta salata per stomaci robusti. Non mi stancherò mai di ripetere che la riuscita di una buona pizza non può dipendere da un solo fattore, ma dalla combinazione di quattro elementi: un ottimo impasto, ingredienti di qualità, un bravo pizzaiolo e una corretta cottura. Una pizza nata da un impasto scadente non sarà migliorata dal forno a legna: se fatta male resterà tale a prescindere dal metodo di cottura. Un impasto correttamente maturato è leggero, quasi si scioglie sotto i denti. Ribadisco: «Correttamente maturato», che non significa legato per forza a lunghissime lievitazioni ormai sbandierate ovunque.
All’estero la nostra cucina e soprattutto le nostre abitudini alimentari sono travisate, smontate e rimontate a piacimento in uno stile pseudo italiano, con risultati che probabilmente non gradiremmo mai (d’altronde anche noi interpretiamo alcuni piatti tipici stranieri con varianti, per così dire, “poco ortodosse”…). Quindi, se proprio vogliamo gustare anche fuori dai confini nazionali la classica pizza da noi tanto amata, non riadattata o maldestramente copiata a seconda delle tradizioni locali, non avremo che da aggiungere uno tra questi due aggettivi: italiana o napoletana. E forse non ci arriverà – come mi è successo in una nota pizzeria alla moda di Londra – un disco di pasta ricoperto di melanzane bruciate, pinoli, pomodoro, aglio selvatico o, ancor peggio ad Anchorage nell’estremo nord degli Stati Uniti – ma ero consapevole della cattiva ventura a cui andavo incontro – quando mi sono visto servire un “qualcosa” di forma rotonda guarnito con dadini vagamente somiglianti nell’aspetto e ancor meno nel sapore a prosciutto cotto, oltre a formaggio del tipo tutto-eccetto-mozzarella e pezzi di ananas, per giunta sciroppato. Applausi dunque per la scuola della pizza napoletana, l’Ultima Frontiera (non quella dell’Alaska da dove sto scrivendo…) di un’enorme, riconosciuta eccellenza.