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July 6, 2013
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July 6, 2013
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A cena fuori? Aspetta e spera

Greta ValigibyGreta Valigi
Time: 4 mins read

New York è la capitale mondiale indiscussa di diverse cose, tra cui la ristorazione. Sono oltre 4,200 infatti i ristoranti della City con una ineguagliabile offerta che comprende cucine da ogni paese del mondo. Ma non voglio parlare di cibo, piuttosto di una interessante tendenza newyorkese nel definire quando un posto sia davvero cool. Riposte le classiche guide alla Michelin e Gambero Rosso, per capire quali posti siano davvero giusti è sufficiente prestare attenzione alle code di persone in attesa all’ingresso di un ristorante. E non parlo di quelle file fuori dai club notturni, ma simili file di gente all’entrata di ristoranti intorno all’ora di cena. Pare infatti che il valore di un ristorante venga misurato in base ai tempi di attesa per essere seduti. Mi spiego: dai tre quarti d’ora all’ora e mezza per un tavolo.

Ai newyorkesi piace aspettare una volta ogni tanto che non devono correre da una parte all’altra, e poi con le mille alternative dove c’è sempre posto che gusto c’è? Un po’ alla ricerca di novità ed esclusività piace l’idea di conquistarsi una cena tanto ambita. In più c’è da considerare che i ristoranti che solitamente accettano prenotazioni sono quelli di alto livello, cari, pretenziosi, quelli dove la clientela somiglia a certi personaggi di Sex and the City, dove il dress code è rigido, niente pantaloni corti per i signori e le donne fanno bella mostra dei loro acquisti di Bergdorf&Goodman, tra tubini e mise da cocktail party, borsette logate e tacchi a spillo più o meno glitterati. Il fenomeno chiamato “no reservation policy” invece definisce questa controtendenza dell’assalto al locale più chiacchierato su siti di recensioni come zagat.com con lunga attesa inclusa. Da un punto di vista commerciale questa pratica viene adottata dai ristoratori per assicurarsi il pienone invece di tenere tavoli vuoti legati alle prenotazioni permettendo anche di mantenere prezzi più accessibili, di conseguenza la clientela di questa tipologia di ristoranti è più varia, solitamente giovane, avventurosa, creativa.

In coda per un tavolo ti ci trovi con persone di ogni professione, coppie, gruppi di amici, tutti con la passione per il gusto. E così è in queste situazioni che vedi i Newyorkesi veri, quelli intellettuali o nel campo delle arti con quello stile personale e inimitabile sfoggiato in queste occasioni sociali interessanti combinazioni di capi sartoriali con jeans, camicie oxford in tinte pastello o quadri gingham, scarpe allacciate in cuoio o boat shoes per lui, abiti country o gonne a ruota a vita alta con stampe geometriche o floreali e zoccoli o zeppe un po’ vintage, o ancora skinny jeans e top basici con giacche in pelle e cappelli in raffia estivi… Ma poi vedi anche quegli americani che invece di stile non se ne curano proprio come uomini che arrivano a cena in ciabatte di gomma, bermuda, t-shirt e cappellino da baseball e ragazze in svilenti abitini in improbabili colori fluo o camicette abbinate a pantaloncini di jeans fin troppo corti persino per andare al mare. E così tutti insieme appassionatamente ci si trova ad aspettare a lungo il proprio turno per quella che si prospetta una cena al top.

La mia prima esperienza alle prese con una insostenibile attesa per una famosissima ciotola di zuppa giapponese è stata da Totto Ramen a Hell’s Kitchen (Manhattan) celeberrimo localino in tipico stile trattoria da sottoscala. Ne avevo davvero sentito parlare parecchio e i miei più cari amici ne erano già clienti affezionati. Così una sera mi ci hanno portato. Scriviamo i nostri nomi sulla lista appesa fuori, siamo sulla seconda pagina. Intorno a noi forse una ventina di persone, tutte ad attendere il loro turno. Passa il tempo e ci sta pure che  andare a comprare acqua e spuntini (perché nel frattempo la fame incalza), chiacchierare con sconosciuti lì che aspettano come noi, guardare una vetrina di cianfrusaglie usate, mentre la mia impazienza cresce e il mio umore si guasta. I miei amici americani non sembrano disturbati, io inizio davvero a scocciarmi tra me e me pensando come si possa sopportare una simile attesa per mangiare? Quella sera aspettammo oltre due ore, impiedi, su un marciapiede e come noi interi gruppi di persone, serene e rilassate. Se non fosse poi che quando finalmente vieni chiamato per  il tuo turno ti rendi conto che il locale non siede più di venti persone in una stanza dove regna il fumo di pentole e padelle  e sei a dieci centimetri dai fuochi della cucina aperta, davvero le cose non migliorano. Il cibo è arrivato nel giro di pochi minuti, così come il nostro conto, della serie “sbrigati che abbiamo la coda fuori”.  

E dopo questa sono armai state tante le simili esperienze culinarie con attese lunghissime nella City e più o meno riuscite, mi hanno ad ogni modo resa partecipe di un fenomeno che ritengo sarebbe impensabile per l’ Italia, e forse anche per questo ho avuto difficoltà a capirlo inizialmente. Mi ci è voluto un po’ ad ambientarmi e convincermi riguardo al rito della fila al ristorante, ma oramai è una routine che non posso evitare e devo ammettere che ho scoperto posti eccezionali per i quali sarei sempre pronta a mettermi in coda. Forse la mia voglia di sentirmi una vera newyorkese mi ha portato a sopperire la mia italianità per quanto riguarda quelle quadratissime regole intorno al cibo e al modo di mangiare, lasciandomi andare alla poca ragionevolezza di un’attesa due volte più lunga dell’attuale cena.

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Greta Valigi

Greta Valigi

Nata e cresciuta in Italia si trasferisce a New York per frequentare la Parsons University dove si laurea in Fashion Design. Da cinque anni lavora come stilista per il segmento plus size, alle redini di un movimento rivoluzionario di stile ma anche sociale con a cuore una visione più inclusiva del mercato della moda.

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