Quando la barca si avvicina allo splendido, ardito e nuovissimo ponte costruito sul Mekong con l’aiuto dei giapponesi, gli occhi dei vietnamiti si illuminano di orgoglio. “Io vengo ogni anno”, osserva ammirato un giovane californiano di origine vietnamita in viaggio con la moglie e il figlio piccolo, “e ogni anno trovo un paese diverso”. Poco lontano, la famiglia di scimmiette impegnata a fare gli onori di casa in mezzo alla folta vegetazione tropicale non sembra affatto disturbata dal traffico delle auto e degli autobus. Sulle rive del grande fiume vicino a Ho Chi-min City e al confine meridionale del Vietnam, è appena finito il mercato galleggiante. I grandi barconi di legno con le cipolle montate come uno stendardo sul pennone cominciano a riavviarsi verso i paesi dell’interno da cui sono partiti prima dell’alba. Hanno venduto vegetali, frutta e saporite minestre ai turisti che si sono alzati alle quattro del mattino per non perdersi lo spettacolo, ma anche ai ristoranti, agli alberghi e ai negozi della zona. Per la vecchia contadina che butta pezzetti di pollo, gamberi,verdure e vermicelli nel suo brodo fumante e attacca con un gesto sicuro con un gancio il suo barchino a quello dei visitatori, il futuristico ponte è una realtà vicina, ma anche lontanissima.
Proprio quel Vietnam pieno di contrasti, di speranze e di contraddizioni è stato al centro dell’attenzione quando, il 3 e il 4 aprile, si è riunito a Phnom Pehn, in Cambogia, il summit dell’Asean, l’associazione che raduna dieci paesi del sud est asiatico, praticamente tutti i più importanti. Nata con modeste ambizioni nel 1967 con una accordo di collaborazione tra l’Indonesia, la Malesia, le Filippine, Singapore e la Thailandia, l’Asean è ormai diventata un colosso, che aspira a creare nel 2015 una vera e propria comunità economica molto simile all’Unione Europea. Con più di 400 milioni di abitanti e una crescita stimata, per il 2012, attorno al 6 per cento, l’organizzazione è diventata un centro di potere anche politico. Anche se i sistemi dei suoi membri sono diversi e non mancano i contrasti, le varie riunione che sono state organizzate alla vigilia del summit hanno mostrato la volontà di reagire con una voce comune non soltanto alle sfide economiche dei due colossi vicini, la Cina e l’India, ma anche a quelle politichedella vicina Corea del Nord dopo l’arrivo al potere di Kim Yong-Un.
Il Vietnam ne è diventato membro a pieno titolo molto tardi, nel 1995, dopo molte polemiche e un ruolo marginale di osservatore per vent’anni, ai tempi dell’invasione della Cambogia. Mentre il mondo guardava dall’altra parte, un passo alla volta, è però ora diventato un’affidabile potenza economica e un’attrazione turistica di prim’ordine, a cui non solo gli Stati Uniti, ma tutti i paesi occidentali guardano con interesse. Anche se, ogni tanto, i vecchi vizi del regime comunista tornano a galla. Far parlare i rappresentanti del regime di Hanoi della situazione politica dei paesi del Pacifico e delle ambizioni nucleari e missilistiche della Corea del Nord non è facile. “Ci dispiace, il responsabile è partito per un viaggio di lavoro”, dicono i collaboratori al ministero degli Esteri, “forse, potrebbe rispondere a qualche domanda scritta, ma il governo è cambiato recentemente, è molto preso…”. Insistere è inutile. Parlare di economia e di ambiente è più facile, ma le interviste si fanno solo in vietnamita e bisogna fidarsi della volonterosa traduttrice. Certamente, da quando, nel 1986, il regime ha deciso di dare una svolta al sistema economico e ha aperto la strada al “doi moi’”, il rinnovamento, una serie di iniziative di liberalizzazione e di apertura verso l’esterno hanno promosso la crescita e attratto ricchi investimenti stranieri. Dal 2000 al 2007, in particolare, il Vietnam è stato uno dei paesi a più rapida crescita nel mondo.
Adesso, il ritmo si è rallentato, ma non di molto. Secondo gli ultimi dati, il prodotto interno lordo dovrebbe essere aumentato, nel primo trimestre di quest’anno di circa il 4 per cento, una percentuale inferiore a quella del 2011, ma pur sempre più che accettabile. A febbraio di quest’anno, solo per fare un esempio, l’apertura del nuovo stabilimento della Piaggio per la produzioni di motori da scooter per il mercato asiatico ha confermato la fiducia dei mercati nternazionali. E l’etichetta ‘’made in Vietnam’’ è ormai diventata comune sui capi di abbigliamento degli stilisti americani e europei. La classe media e i ricchi sono in crescita, anche se un reddito di cinquecento dollari al mese è già considerato molto buono per una famiglia della borghesia urbana e i grandi magazzini di Ho Chi Min City fanno invidia anche sui prezzi quelli di New York. Contemporaneamente, il Vietnam è diventato una delle mete di punta del turismo internazionale. I dati non sono sicuri, ma si calcola che per ammirare le straordinarie bellezze naturali della Halong Bay e della lunga costa che porta al delta del Mekong e il fascino di quello che resta dei templi di My Son dopo i bombardamenti americani siano arrivati nel paese, negli ultimi anni, non meno di sei milioni di stranieri all’anno. Le grandi città, da Hanoi a Ho Chi Min City hanno conservato punti di fascino struggente bellezza, le pagode sul lago e il Tempio della Letteratura, l’università nata mille anni fa e dedicata a Confucio, nella capitale, le grandi piazze e i quartieri di villette coloniali in quella che si chiamava Saigon. Lo sviluppo tumultuoso, però, ha anche avuto un prezzo. In un paese giovanissimo, ma anche ricco di tradizioni, di storia e di bellezze naturali, approssimazione, corruzione e avidità rischiano di essere una mina vagante, di sommergere tra cemento e rifiuti un autentico patrimonio. Per rendersi conto di cos’è oggi il Vietnam, paese delle mille meraviglie e mille contraddizioni, basta fermarsi per pochi minuti lungo la strada che porta da Hanoi alla Halong Bay, in uno dei tanti centri commerciali per i turisti. La costruzione è bassa, a un solo piano, chiaramente messa insieme in fretta, senza gusto e senza pretese architettoniche. Nel vasto spazio esterno, una vicina all’altra, ci sono tante brutte statue di marmo bianco, i buddha panciuti si sprecano, sul muro estero ci sono le gigantografie di chi li ha comprati e se li è fatti spedire in Germania o in Australia.
Gli autobus e i minibus da otto o dieci posti delle agenzie turistiche scaricano senza sosta frotte di francesi, tedeschi, svedesi, australiani o americani, quasi tutti di mezza età e, almeno apparentemente, di ceto medio. All’interno del complesso, però, il quadro cambia. Nell’enorme stanzone si vendono lacche e ceramiche colorate, soffici sciarpe di seta, gioielli, borse e i borselli ricamati a mano. Tutto, a differenza dei massicci Buddha esposti all’esterno, è di ottima qualità, assomiglia poco alla merce prodotta in fretta e senza cura del gigante economico che sta a nord, la Cina. E per di più i prezzi sembrano quasi irreali al visitatore occidentale.
“In stagione”, racconta con evidente compiacimento il signor Ba, il ventisettenne manager del grande negozio, “incassiamo anche 5000 dollari al giorno”. Per capire da dove vengono sciarpe e vasi colorati, basta visitare uno dei tanti “villaggi” della seta e della ceramica ormai incorporati nel caotico tessuto urbano di Hanoi. Soprattutto dopo la liberalizzazione dell’economia, il governo ne ha favorito la sopravvivenza e oggi è facile scoprire, dietro l’angolo di una strada periferica intasata di motorini, una piccola enclave di vecchie e tranquille stradine, in cui l’artigianato è una tradizione antica e rispettata. Le sete multicolori si producono e si vendono da generazioni, casa e fabbrica si confondono, le famiglie si riuniscono per mangiare sull’aia, con un occhio al negozio e uno ai telai nascosti nella stanza sul retro.
Il centro commerciale, spiega Ba, è un’iniziativa mista del governo e di privati, e l’artigianato è quasi tutto locale. “Ci sono circa mille persone nella regione e duecento nel resto del Vietnam che lavorano esclusivamente per noi” dice il giovane manager.
Uscendo all’esterno, è difficile reprimere una punta di delusione, la sensazione di un potenziale di altissimo livello che rischia di essere distrutto dalla fretta di chi spinge per uno sviluppo sempre più accelerato .Una sensazione analoga, d’altra parte, la suscita anche il primo scorcio della Halong Bay. Con le sue duemila isole di roccia calcarea, proclamata Unesco World Heritage nel 1994 per la sua bellezza scenica e nel 2000 per la sua diversità biologica, la grande baia ai bordi del golfo del Tonchino non può lasciare indifferenti. Lo spettacolo degli isolotti che nascono dal mare è di quelli che lasciano senza fiato, infinitamente più bello di quanto possano descriverlo le brochures delle agenzie di viaggio. “Questa è la natura che mi piace vedermi intorno” racconta il capitano del giunco di legno, che fa parte di una piccola flotta di cinque,” qualcosa nel mio cuore si connette a questa baia.” Secondo le antiche leggende, a creare la baia è stato un dragone sceso dal cielo per difendere la popolazione locale contro le navi degli invasori.
E in effetti, con le sue rocce scoscese a picco sul mare, le sue caverne e le sue grotte nascoste, ha sempre offerto nel corso della storia un naturale scudo protettivo contro gli attacchi dei mongoli, dei cinesi e perfino dei caccia americani. Ancora all’inizio degli anni novanta, arrivarci era difficile, ci volevano sette ore di viaggio da Hanoi, i fiumi, dopo la distruzione dei ponti durante la guerra, bisognava attraversarli con le chiatte, alberghi e ristoranti erano praticamente inesistenti. Adesso, si arriva dalla capitale in meno di tre ore, le giunche cinesi grandi e piccole, tutte con il loro dragone di legno scolpito sulla prua, aspettano invitanti i turisti agli attracchi dei molti, le più belle hanno comode cabine per ospitare i viaggiatori durante la notte, poco lontano si vede la sagoma massiccia di una nave da crociera della Costa. Gli alberghi, lungo la strada che porta ai moli, sono spuntati come i funghi, esibiscono all’ingresso un lusso inaspettato e nelle camere un sistema elettrico un po’ incomprensibile per i non iniziati, ma anche rispettoso del risparmio energetico. Il governo, che non risparmia certo i controlli ai suoi cittadini, chiude un occhio per i turisti. Sugli schermi televisivi arrivano programmi da tutto il mondo, perfino quelli della Rai.
A novembre del 2011, la Halong Bay è stata votata una delle Sette Meraviglie Naturali del mondo. Solo un mese prima, ad ottobre, la stessa baia è stata però anche inclusa nella lista dei monumenti da osservare con particolare attenzione nel 2012 per evitare i rischi di uno sviluppo incontrollato e distruttivo. All’inizio di marzo, la stessa Unesco ha ritenuto giusto organizzare a Hanoi una lunga settimana di convegni, discussioni ed eventi dedicati alla conservazione della cultura e delle risorse naturali del Vietnam, una sorta di discussione collettiva sui pericoli culturali, sociali e ambientali di una crescita troppo rapida. La sequenza delle iniziative, è ovvio, non ha lasciato dubbi. Con le guerre e le crisi politiche ormai lontane, le bellezze e le ricchezze naturali e culturali del remoto paese del sud-est asiatico meritano di essere valorizzate. Ma anche tenute sotto controllo da parte della comunità internazionale. I primi dubbi nascono montando sul giunco. I motori sono potenti, la colazione offerta a bordo è ottima, non manca la bancarella dei ricordini in vendita. Sui sistemi di sicurezza, tuttavia, c’è ancora molto da dire. A febbraio del 2011, un barcone carico di turisti è affondato di notte e ci sono state dodici vittime. Pochi mesi dopo, un altro giunco è andato a fondo, anche se questa volta per fortuna tutti si sono salvati. Dopo le due tragedie, il governo ha emanato una serie di nuove norme di sicurezza, ma non tutti ancora le rispettano. Il peggio, poi, arriva quando il barcone si avvia tra le isole. L’acqua in molti punti è torbida, marroncina. “E’ la stagione” azzarda Duong, giovane accompagnatrice del Ministero degli Esteri,’ “in estate è limpida e azzurra”. Crederle, tuttavia, è difficile, i turisti lasciano le loro tracce nelle grotte, tra le stalattiti e le stalagmiti a cui i locali hanno dato nomi fantasiosi, i rifiuti, troppo spesso, si scaricano in acqua e non si vedono chiatte incaricate di ripulire bottiglie e sacchetti di plastica dalla superficie. I tradizionali villaggi sull’acqua, che sono una delle attrazioni della baia, offrono pesce e crostacei appena pescati a turisti e ristoranti della zona. Anche loro, però, scaricano direttamente nella baia i loro rifiuti. Poco al largo dai villaggi, passano le rotte delle navi che trasportano carbone.
Per il momento, i danni non si vedono troppo, lo spettacolo incanta i turisti e pochi pensano ai rischi che corre un sistema bio-geologico del tutto unico, una sorta di museo all’aperto vecchio di 300 milioni di anni e che fino ad ora ha mantenuto 14 diversi tipi di fiori e 60 differenti specie animali. L’allarme degli ambientalisti però è ovvio. Il governo, da parte sua, cerca di ascoltare, ma non sembra in grado di fare più di tanto. Quello che è successo in altre zone del paese non sembra autorizzare l’ottimismo. Nelle città, ci sono banche ad ogni angolo, ma ogni attraversamento è un’avventura. Nelle campagne, l’inquinamento delle acque è ancora un rischio concreto per le esportazioni. Per salvare i templi di My Son, i santuari induisti dell’antico regno di Champa nascosti tra le montagne e semidistrutti dai bombardamenti americani sono intervenuti ora gli italiani, con un progetto del Politecnico di Milano. L’antica reggia imperiale di Hue e la deliziosa cittadina coloniale portoghese di Hoi An sono stati conservati grazie agli interventi decisi dell’Unesco e di alcuni paesi. Lungo la costa che va da Hanoi a Ho-Chi Min City, la speculazione ha spesso vinto, sono nati vicino alle spiagge campi da golf e condomini che assomigliano a quelli di Miami. Nei grandi casinò di Danang, vietati ai vietnamiti, trovano rifugio per la serata soprattutto i nuovi ricchi del miracolo economico cinese. Più sensibile di altri, il National Geografic ha già reagito, e nel 2010 ha messo le spiagge vietnamite di Nha Trang e Mui Ne in fondo alla sua classifica, insieme a quelle troppo costruite di Waikiki e di Goa. In questi giorni, in Cambogia, il Vietnam parlerà soprattutto di crescita, di sicurezza anche militare, di cooperazione regionale e internazionale. Quella che è mancato, sul tavolo del summit, è stata la preghiera dei pensionati tedeschi e australiani di non distruggere troppo in fretta un patrimonio del tutto unico.