Nella primavera del 1968, quando il professor Mario Napoli cominciò una campagna di scavi a due chilometri da Paestum, centro archeologico campano cuore della Magna Grecia, non ci si aspettava di trovare nulla di particolarmente rilevante. Le ricerche si erano concentrate in una zona lontana dal centro dell’antico abitato, in una zona detta Tempa del prete dove erano state identificate alcune sepolture. Doveva essere una ricognizione archeologica come ce ne sono a centinaia in Italia; si sarebbe identificato qualche tumulo, raccolto qualche resto osseo e magari monili, monete o vasi componenti un corredo funebre. Ordinaria amministrazione insomma. Così, la mattina del 3 giugno, quando Napoli e i suoi assistenti rinvennero una tomba a cassa in travertino locale, cedettero di aver fatto una scoperta da poco. Nulla faceva pensare che quel sarcofago fosse diverso dagli altri se non fosse stato per una certa cura posta nel saturare con stucco bianco le congiunzioni tra le varie lastre. Invece, non appena si riuscì a togliere il pesante coperchio che proteggeva le spoglie del defunto gli archeologi si resero conto di aver fatto una scoperta sensazionale: l’interno della tomba era completamente affrescato. Quella che avevano davanti era l’unico esemplare di pittura greca giunto fino a noi.
Paestum infatti, o per meglio dire Poseidonia, era una colona fondata dai Greci di Sibari nel 600 a.C. Grazie alla sua posizione felice nel mezzo del Tirreno e alla fertilità del terreno bagnato dal fiume Sele, la città divenne presto una delle più ricche della Magna Grecia e continuò a prosperare anche dopo la conquista da parte dei Lucani, una popolazione locale, nel 400 a.C circa. La città conservò comunque la sua impronta culturale ellenica, anche dopo la conquista da parte dei Romani nel 270 a.C., i quali ribattezzarono la città chiamandola Paestum. La tomba risaliva comunque all’epoca del dominio greco: gli oggetti del corredo funebre ci hanno infatti permesso di stabilire una datazione precisa: ci troviamo tra il 470 e il 480 a.C., il periodo dell’ascesa della città. Il Tempio di Atena era stato inaugurato da una ventina d’anni e si stava per dare inizio all’edificazione del Tempio di Nettuno.
Le pareti laterali raffigurano varie scene di un banchetto: dovrebbe trattarsi del convivio funebre organizzato in onore del tuffatore. Vediamo dieci personaggi inghirlandati e adagiati su triclini, occupati a bere, giocare, suonare e scherzare tra loro. L’alcool abbonda: su uno dei lati corti notiamo subito un giovane intanto a riempire una coppa da un enorme cratere pieno di vino, a disposizione degli ospiti. L’artista ha evidentemente deciso di raffigurare il banchetto nella sua fase finale, quando gli spiriti erano già diventati parecchio euforici. Su uno dei lati lunghi due degli uomini se ne stanno in disparte, sdraiati uno accanto all’altro; si guardano con malcelato desiderio, sono evidentemente amanti. La confusione attorno non sembra disturbarli, forse l’ebbrezza fornita dal vino li induce a effusioni più audaci e consente loro di separarsi dal rumoroso contesto. Pare quasi di poter ascoltare la musica e le chiacchiere confuse dai troppi calici di vino, le risate che interrompono i discorsi. Due dei convitati sono impegnati in un gioco immancabile durante i banchetti, il kottabos. Consisteva nel lanciare delle gocce di vino dal fondo di un boccale contro dei piccoli recipienti lasciati a galleggiare in un vaso pieno d’acqua. Vinceva chi ne colpiva di più. Può sembrare un passatempo poco divertente, ma è probabile che fosse più che altro una scusa per vuotare il maggior numero di coppe possibile.
Un’altra coppia di commensali si diverte con la musica: uno suona il flauto e l’altro sembra accompagnarlo cantando, ma forse il troppo bere gli impedisce di esibirsi al meglio: lo vediamo infatti che si tocca la fronte con una mano, come a cercare di ricordare una melodia o di nascondere le risate provocate dalla sua comica performance. C’è gioia ovunque insomma, tutto il contrario di quel che ci aspetteremmo da una funzione funebre. Ma dobbiamo ricordare che il rapporto dei Greci con la era molto diverso dal nostro. Solo la scena raffigurata nell’altro lato corto del sarcofago ci ricorda che si sta pur sempre celebrando la scomparsa di una persona: un giovane nudo avanza accompagnato da un giovinetto che suona un flauto e da un uomo anziano che cammina a fatica aiutandosi con un bastone e tenendo una mano contro il fianco. Si tratta di un corteo funebre, e il ragazzo al centro dovrebbe essere proprio l’illustre scomparso, il nostro tuffatore.
Ma l’intera rappresentazione appena descritta, pur se di splendida fattura, sparisce di fronte alla magnificenza della scena del tuffo, effigiata nella lastra messa a copertura del sepolcro. Vi possiamo ammirare il giovane che si lancia da una specie di trampolino di pietra nell’acqua appena increspata dal vento. L’intera scena è incorniciata da due alberi spogli, privi di foglie.
Si tratta di una rappresentazione unica, mai replicata in nessun altro manufatto di arte antica da noi conosciuto. Non sapendo nulla dell’uomo raffigurato (possiamo solo dedurre che fosse di buona famiglia e che, a giudicare dai pochi resti ossei conservatisi, sia morto prima dei trent’anni), siamo solo in grado di azzardare ipotesi. Qualcuno ha suggerito che il defunto fosse semplicemente un ottimo nuotatore e che la famiglia abbia voluto celebrare il suo talento.
La maggior parte degli studiosi preferisce però un’interpretazione simbolica: il tuffo rappresenterebbe il passaggio da questa vita all’esistenza ultraterrena, mentre i due alberi indicherebbero le colonne d’Ercole, il confine tra il mondo allora conosciuto e l’ignoto, morte compresa. È possibile anche che il tuffo simboleggi la reincarnazione dell’anima attraverso la purificazione concessa dall’acqua: la filosofia pitagorica, allora in voga in tutta l’area ellenica, contemplava infatti questa possibilità. Noi possiamo solo aggiungere che il tuffatore doveva essere un grande egoista, perché ha voluto che questa meraviglia di dipinto venisse realizzata nella sua tomba per potersela godere da solo…
Di certo, anche se il significato è metaforico, la scena è raffigurata con un realismo eccezionale. Il ragazzo si getta verso
lo specchio d’acqua con un gesto naturale e pieno di stile: non c’è dubbio che l’artista che ha dipinto questa scena dovesse aver visto più volte dal vivo degli uomini lanciarsi dall’alto di qualche scoglio. Non dobbiamo dimenticare che questa era una civiltà marina che guardava al mare aperto per comunicare e per vivere, e che Poseidonia significa “città di Poseidone”, il signore degli abissi.
Purtroppo non possiamo inserire questo capolavoro nel suo contesto, per il semplice fatto che non esiste alcun contesto: la tomba del tuffatore è infatti, a oggi, l’unica opera pittorica della civiltà greca che ci sia arrivata. È questa una perdita dal valore incalcolabile, perché i Greci stessi ritenevano che il loro genio artistico si fosse rea la scultura o l’architettura. Il dispiacere per questa scomparsa diventa ancora più grave se si pensa che la bellissima tomba pestana era opera di un artigiano di valore ma certo non di un vero maestro; chissà quanta magnificenza dovevano esibire i lavori perduti di geni del pennello come Prassitele e (), tanto ammirati dai loro contemporanei.
A voler essere precisi, però, questa non è un’opera del tutto greca. Ci troviamo nella terra di mezzo tra due culture: Poseidonia sorgeva appena a sud del fiume Sele, che marcava il confine tra la civiltà greca e quella etrusca. Il Tuffatore rappresenta una sintesi artistica tra due mondi che certo si fronteggiavano militarmente ma avevano anche imparato a commerciare e comunicare tra loro.
Così, se i tratti dei personaggi del banchetto e la plasticità dei movimenti sono indiscutibilmente greci, l’associazione tra contesto conviviale e cerimonia funebre era familiare soprattutto alla popolazione italica. Inoltre i Greci non decoravano le tombe se non con dei semplicissimi motivi geometrici, mentre gli etruschi dipingevano spesso gli interni delle loro camere mortuarie con scene conviviali. Il nostro affresco diventa quindi un mistero nel mistero, l’unica testimonianza congiunta di una civiltà quasi cancellata dalla Storia e una cultura famosa per la sua filosofia, la sua letteratura e la sua scultura e ma del tutto sconosciuta per la pittura.
Per ora possiamo limitarci ad ammirarla – meglio se dal vivo al Museo archeologico di Paestum – sperando che futuri scavi portino alla luce altri affreschi. Per nostra fortuna quasi metà dell’antica Poseidoniaaspetta ancora di essere riportata alla luce.