Ci sono storie che, più che essere raccontate, hanno bisogno di essere vissute, anche attraverso lo schermo. Il nuovo film di Andrea Segre su Enrico Berlinguer ha la capacità di evocare quel marciume, quella cancrena che accompagna inevitabilmente la politica quando perde il contatto con le proprie radici ideali. Berlinguer: La Grande Ambizione, che ha aperto la 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma, in concorso nella sezione “Progressive Cinema”, tenta di restituire proprio questo: la disillusione, la crisi, ma anche il coraggio di un uomo che ha cercato di navigare in quel pantano, guidato da una bussola morale che sembrava irrimediabilmente rotta per il mondo che lo circondava.
Enrico Berlinguer, interpretato da un Elio Germano che si immerge nel ruolo con un’intensità quasi ossessiva, non è qui solo il leader del Partito Comunista Italiano. È, piuttosto, il simbolo di una stagione politica che si avvia verso la decomposizione, molto prima che le Brigate Rosse e l’omicidio di Aldo Moro mettessero fine al dialogo tra due mondi – quello comunista e quello democristiano – che, a conti fatti, non erano mai stati davvero destinati a comprendersi.
Il film si fa strada tra i resti di quel compromesso storico mai davvero nato, come se Segre volesse mostrarci la carcassa di una possibilità, quella di un socialismo democratico che poteva cambiare l’Italia e invece si è schiantato contro i muri del potere cristiano, delle logiche della Guerra Fredda, e di un sistema politico che, già in quegli anni, stava morendo su sé stesso.
Spiega il regista: “L’idea di questo film è nata quando mi sono reso conto che il cinema italiano ha raccontato molto poco quel popolo che si è riconosciuto nel Partito Comunista Italiano, un terzo del paese che per decenni ha sognato un futuro diverso. Mi sono chiesto perché non si fosse ancora esplorato a fondo il personaggio di Berlinguer e quel periodo cruciale. È stato un progetto lungo, un processo che ha coinvolto riflessioni su ciò che quegli anni rappresentano per il nostro presente”.
Certo, il regista sa benissimo che la storia di Berlinguer, così come quella di Moro, non ha bisogno di abbellimenti. È una tragedia politica già di per sé, che si conclude con un funerale non solo di un uomo, ma di un’intera stagione dove ancora si pensava che l’uguaglianza potesse vincere sul capitalismo. Berlinguer si muove in un mondo che puzza di accordi putrefatti, di alleanze politiche che si autodistruggono nella lotta per il potere.
Nel film, Germano restituisce la figura di un uomo che ha resistito fino all’ultimo, contro una marea montante di cinismo. Non cerca di renderlo un eroe, né tantomeno un martire. È un uomo stanco, logorato, che sembra capire sempre di più come il suo sogno di rinnovamento del comunismo stia diventando irraggiungibile, non per colpa sua, ma per la sordità di un mondo incapace di accogliere quel cambiamento. E se Berlinguer resta fedele alla sua idea, lo fa con una determinazione che alla fine diventa tragicamente impotente.
“Era essenziale evitare di idealizzare il personaggio,” ha spiegato l’attore. “Berlinguer era un uomo che ha attraversato profondi conflitti interiori. L’Italia di quel tempo era profondamente divisa, e lui cercava di mantenere un equilibrio delicato. Il mio obiettivo non era fare un ritratto superficiale, ma scavare nelle sue fragilità, mostrando l’umanità dietro il leader politico”.

La regia, con i suoi toni cupi e le sue atmosfere quasi claustrofobiche, ricorda lo sprofondare nella spirale dell’autorità che abbiamo visto in altri film dedicati a quel periodo. Le stanze della politica sono affollate di fantasmi, e ogni passo in avanti sembra portare solo più vicino all’abisso. Il film rappresenta il disperato tentativo di Berlinguer di salvare qualcosa di essenziale prima che tutto crolli.
Accanto a Elio Germano, troviamo Elena Radonicich nel ruolo di Letizia Laurenti, moglie di Enrico Berlinguer, che scelse di restare lontana dalla vita pubblica, nonostante la posizione di suo marito come segretario del PCI. “Pur condividendo alcuni ideali con lui, Letizia non era comunista e non partecipava attivamente alla sua attività politica”, ha detto l’attrice. “Il loro legame si basava su un profondo rispetto reciproco e un forte supporto emotivo, nonostante le differenze, come la fede cattolica di Letizia e l’ateismo di Berlinguer”.
Interessante è anche il modo in cui viene trattato il rapporto di Berlinguer con l’Unione Sovietica. Non c’è nessun tentativo di romanticizzare il comunismo sovietico, né di farne un nemico da demonizzare. Berlinguer, come molti italiani del tempo, ha guardato a Mosca non come un modello, ma come un’ombra lunga che incombeva sulle sue scelte. Il film lo mostra in un delicato equilibrio tra il bisogno di mantenere l’indipendenza politica del PCI e la necessità di non alienarsi completamente i legami con la madrepatria socialista.
Come ci ricorda il film, la transizione al socialismo richiedeva prima di tutto una “ricomposizione unitaria della società italiana”, con l’obiettivo di trasformare il paese e avanzare verso una società post-capitalistica. Questo processo avrebbe dovuto avvenire attraverso l’introduzione graduale e ponderata di “elementi di socialismo”, riprendendo la famosa espressione di Berlinguer. “Non volevo fare un film politico in senso stretto,” ha detto Segre, “ma piuttosto esplorare il fallimento di un ideale e di una generazione che ha vissuto quegli anni. È un film sull’impossibilità di realizzare una “riforma intellettuale e morale”, che si era sempre basata sull’idea di una stretta collaborazione fra le masse socialcomuniste e quelle cattoliche”.
Berlinguer, la grande ambizione ci spiega cosa succede quando gli ideali si scontrano con una realtà che non è più in grado di accoglierli. Una realtà che, alla fine, ha fagocitato tanto la Democrazia Cristiana quanto il Partito Comunista, lasciando spazio a una classe dirigente, “meno ipocrita ma più spregiudicata, più egoista”. Una classe dirigente che avrebbe inaugurato l’era di Craxi e, infine, di Berlusconi, quando la sinistra si suicidava tra un’alleanza e l’altra.