Vestita di bianco, illuminata da un grande sorriso: Paola Cortellesi si presenta ai giornalisti in conferenza stampa soddisfatta, il suo debutto alla regia, che apre il Festival del cinema di Roma, è stato molto applaudito. Intorno a lei i suoi attori, che sono anche suoi amici. “E’ stato difficilissimo interpretare il ruolo della sua più cara amica nel film – dice scherzando Emanuela Fanelli – ho dovuto attingere a tutte le mie tecniche della recitazione, anni di studio….” Ridono. “Credo che mi abbia voluto accanto nella sua opera prima per una ragione puramente antropologica – ha spiegato Valerio Mastandrea -. E cioè non perché mi consideri un attore particolarmente versatile e talentuoso ma semplicemente perché ridiamo nello stesso modo e delle stesse cose. Questo ci permette di guardare e stare dentro quello che facciamo come fanno due primati dello stesso gruppo.”
“Questo film è nato nel terrazzo di Paola – hanno spiegato gli sceneggiatori Giulia Calenda e Furio Andreotti – lei ci ha dato una immagine, una donna che riceve uno schiaffone una mattina e poi continua la sua giornata come nulla fosse e da lì, dalle nostre conversazioni, è nato il progetto.”
“Con loro lavoro da tempo – ha esordito Paola Cortellesi – stavolta gli ho chiesto di aiutarmi a raccontare la vita delle donne che nessuno ha mai celebrato, sottoposte a violenze che si consumavano all’interno delle loro case, donne che hanno cresciuto questo paese, allevandone i figli, che hanno attraversato la guerra e non sono state raccontate perché non hanno fatto nulla di speciale. Nessuno si rendeva conto delle vessazioni cui venivano sottoposte e loro stesse pensavano di essere assolute nullità. Mi ricordo mia nonna, che era una donna eccezionale, dava consigli a tutti, a me in particolare che gliene chiedevo tanti, però concludeva sempre dicendo: però, che capisco io?”

Questo senso di inferiorità, questa insicurezza costante non sono superati, aggiunge, dall’epoca della storia raccontata in C’è ancora domani ad oggi sono trascorsi più di 70 anni, eppure le donne fanno ancora fatica a credere in sé stesse. E soprattutto: ci sono molte leggi, ma la violenza nei confronti delle donne non cessa.
“Io e gli sceneggiatori abbiamo guardato per ore, sbobinato, gli atti processuali dei femminicidi e ci siamo accorti che le dinamiche sono sempre le stesse: svilire la vittima prima, poi decidere di conseguenza. Volevamo che il nostro film facesse pensare molto al presente, che ci fossero i rimandi al mondo contemporaneo.”
L’aspetto che maggiormente caratterizza il film però è l’inserimento di continui momenti di leggerezza, grazie all’uso del dialetto e alla vis comica che caratterizza Paola Cortellesi.
“Il doppio registro, drammatico e comico, è una cosa su cui ci siamo interrogati molto io e i sceneggiatori, ci siamo chiesti quanto potessimo spingerci su questo linguaggio per affrontare una cosa come la violenza domestica, ma allora questa era una cosa quasi quotidiana, normale e come tale l’abbiamo trattata. I miei nonni mi raccontavano cose orribili successe a persone che conoscevano, ma sempre con tono scanzonato. Allo stesso modo le scene di violenza domestica non le ho volute rendere con eccessivo realismo, non volevo che ci fosse del voyeurismo, vediamo quanto le fa male, quante ossa le rompe, volevo renderle come lei se le racconta, come non fosse successo niente, ma proprio il come non fosse successo niente è la cosa più violenta che possa accadere.”
E dirigere per la prima volta? “Ho fatto tre settimane di prove, di solito non si fanno, ma sono servite a me per la direzione e a loro per darmi dei suggerimenti preziosi che hanno migliorato le scene che andavamo a interpretare. E’ stata una esperienza magnifica e intendo proprio ripeterla…!”