The Brutalist, il terzo film di Brady Corbet, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, racconta di László Toth, un architetto visionario di origine ungherese formato alla Bauhaus e interpretato da Adrien Brody.
Il film, della durata di oltre tre ore, si apre nel 1947, un periodo di grande turbolenza in Europa. László ed Erzsébet, Felicity Jones, fuggono dalla loro terra, devastata dalla guerra, per stabilirsi in America. Qui, in una terra nuova e sconosciuta, cercano di ricostruire la loro eredità e di contribuire alla nascita dell’America moderna. Le loro vite, però, prendono una svolta drammatica quando incontrano Harrison Lee Van Buren, un industriale ricco e misterioso che diventa il loro mecenate. Van Buren, interpretato con un fascino ambiguo da Guy Pearce, non è solo un benefattore, ma una figura enigmatica che incarna le promesse e le insidie del Sogno Americano. La commissione di un monumentale progetto modernista diventa per László l’occasione per affermare il suo genio creativo, ma anche l’inizio di una spirale di compromessi che metterà alla prova la sua integrità e quella della sua famiglia.
In questa opera fluviale, Corbet, in passato a Venezia con L’infanzia di un capo e Vox Lux, riflette trasformazione personale dei protagonisti e la rinascita di una nazione, forgiata dalle mani e dai sogni degli immigrati. Durante la conferenza stampa alla Mostra del Cinema di Venezia, il regista ha espresso chiaramente la sua visione artistica e la sua frustrazione verso un’industria che spesso cerca di dettare le regole. “È piuttosto imbarazzante continuare a discutere sulla durata del film; è come criticare un libro per avere 700 pagine invece di 100. Per me, si tratta di quanta storia c’è da raccontare”.
The Brutalist è anche, e forse soprattutto, una storia d’amore. László ed Erzsébet, sono una coppia legata non solo dal destino, ma da una comune visione di ciò che potrebbe essere costruito insieme, contro ogni avversità. Corbet utilizza la figura del mecenate come metafora delle insidie del potere e del controllo, mostrando come l’arte, pur essendo un atto di espressione e libertà, possa essere intrappolata dalle dinamiche del mercato e dalle ambizioni altrui. In questo senso, Van Buren, con il suo potere economico, rappresenta una forza che può essere tanto una benedizione quanto una maledizione per il personaggio di Tóth, in bilico tra genio creativo e le ombre del suo passato nel campo di concentramento.
Adrien Brody ha raccontato come la storia di sua madre, Sylvia Plachy, ungherese fuggita durante la rivoluzione del 1956, abbia influenzato la sua interpretazione. “Ho sentito un’affinità immediata con il personaggio. Conosco bene l’impatto che quell’esperienza ha avuto sulla vita e sull’arte di mia madre, un parallelo affascinante con le creazioni di László e l’influenza della psicologia post-bellica sul lavoro creativo e sulla vita futura”.
Durante la conferenza, Corbet non ha potuto nascondere l’emozione e ha confessato: “Sono profondamente commosso oggi, perché questo film è stato il mio compagno per sette lunghi anni e mi ha permesso di rendere giustizia a tutti quegli artisti dimenticati dalla storia”.
Infine, quando qualcuno gli ha chiesto di tracciare un parallelo con il conflitto attuale tra Israele e Hamas,il regista ha risposto con fermezza: “Il film narra la storia di un uomo che fugge dal fascismo solo per ritrovarsi intrappolato nel capitalismo. Questo è il tema centrale del film”.