Da oltre vent’anni, Amos Gitai porta sullo schermo immagini complesse della vita israeliana e della Diaspora ebraica. Nel 1973, durante la Guerra del Kippur, un elicottero della Croce Rossa su cui viaggiava fu abbattuto dalle forze siriane. Dopo questa esperienza, ha iniziato a usare la sua macchina da presa come mezzo per documentare e mettere in discussione gli eventi storici e politici che lo circondavano. Sia i suoi documentari che i suoi film sono brutalmente onesti nella rappresentazione dei conflitti politici, delle difficoltà personali e della ricerca di un significato.
In Why War, presentato fuori concorso a Venezia 81, il regista parte da uno scambio epistolare quasi dimenticato, ma incredibilmente attuale, tra due giganti del pensiero del XX secolo: Albert Einstein e Sigmund Freud.
Nel 1931, Einstein, su invito della Società delle Nazioni, scrisse a Freud chiedendogli di discutere insieme del perché le persone fanno la guerra e di come si possa evitarla. Einstein sosteneva l’importanza di creare un organo giudiziario indipendente per risolvere i conflitti, mentre Freud concordava ma riteneva difficile sopprimere le tendenze aggressive dell’umanità. Questo dialogo, a cavallo tra la scienza e la psicanalisi, tra la ragione e l’inconscio, è stato per Gitai la scintilla che ha acceso l’intero progetto. Ma come trasformare una serie di lettere in un’opera cinematografica che parli al cuore del pubblico di oggi?

Durante la conferenza stampa, Gitai ha raccontato un episodio che spiega bene il suo processo creativo. Dopo il 7 ottobre 2023, una data che ha visto una nuova ondata di violenza in Israele e Palestina, Gitai si trovava a Parigi, una città che ha sempre considerato un rifugio intellettuale. Seduto in un piccolo caffè, ha riletto la corrispondenza tra Einstein e Freud, cercando conforto in quelle parole antiche. E’ stato in quel momento che ha capito che la chiave del suo film non sarebbe stata l’immagine, ma la parola.
“Le immagini possono essere ingannevoli”, ha detto Gitai. “Possono saturare lo spettatore, anestetizzarlo, o peggio, spingerlo a prendere partito in modo acritico. Ma le parole… Le parole ti costringono a pensare, a riflettere. Ti inchiodano al significato”. Questa consapevolezza ha portato il regista a una scelta radicale: un film senza le immagini iconografiche della guerra, senza il consueto carico visivo che spesso alimenta l’odio anziché spegnerlo.
Gitai ha condiviso un altro aneddoto per ribadire la decisione di evitare le immagini più crude del conflitto. Durante le riprese, racconta, uno dei membri del suo team gli mostrò un video amatoriale particolarmente violento. L’intensità delle immagini era tale che per qualche istante nessuno in sala riuscì a parlare. Gitai si rese conto che includere scene simili nel film avrebbe avuto un impatto devastante, ma non quello che lui cercava. “Se mostri solo la distruzione”, riflette il regista, “rischi di perpetuare la violenza. La gente si indigna, si arrabbia, ma non si avvicina alla comprensione. E questo non è quello che voglio.”

La stessa scelta di girare il film in più città – Berlino, Parigi, Vienna – e di usare il francese come lingua principale, riflette l’intento cosmopolita di Gitai. Per lui, il film è un esperimento collettivo, una sorta di laboratorio aperto dove attori e tecnici, israeliani e palestinesi, hanno potuto confrontarsi in un clima di reciproca apertura. Questo dialogo si riflette sullo schermo, dove le parole di Einstein e Freud, interpretate da Mathieu Amalric e Micha Lescot, risuonano con una forza che va oltre il tempo.
Gitai cita Virginia Woolf e Susan Sontag come influenze per il film, non tanto per le loro idee politiche quanto per il loro approccio alla narrazione. Entrambe, infatti, esplorano il potere delle parole in un mondo dominato dalle immagini. “La parola è ciò che resta quando tutto il resto crolla”, ha detto Gitai, e in questo film, la parola diventa strumento di resistenza, di riflessione e, forse, di pace.
Why war cerca di smarcarsi dagli eventi contemporane e di andare oltre la contingenza storica. Come ha sottolineato il regista, il film non è solo una risposta al conflitto israelo-palestinese, ma una meditazione più ampia su ciò che spinge l’umanità verso la distruzione. “Viviamo in un mondo dove la violenza è spesso presentata come l’unica soluzione ma la storia ci insegna che la guerra non porta mai a una vera vittoria. Dobbiamo trovare altri modi di risolvere i nostri conflitti”.