C’è Augusto Pinochet vampiro reazionario di anni 250, assetato sin dalla rivoluzione francese di sangue sovversivo, c’è l’abbraccio carnale del regime fascista con la chiesa e il fascismo stesso come un morbo contagioso che si propaga in tutto il mondo, dalla (contro)Rivoluzione Francese in poi, spesso coperto dal perbenismo del conservatorismo borghese: ci sono tutte le premesse insomma perché El Conde sia un’opera dissacrante e complessa. Peccato però che il nuovo film targato Netflix del regista cileno Pablo Larraín, presentato in concorso nella seconda giornata della Mostra del cinema di Venezia, si avviti progressivamente su se stesso finendo per girare completamente a vuoto. Sono due i piani narrativi che lo sostengono, da un lato la metafora vampiresca, in cui il non-morto Pinochet è alle prese con l’eredità finanziaria da distribuire tra i cinque figli, la moglie Lucia e il suo fedele servitore, e il lascito morale e storico con cui forse il Cile non ha ancora fatto i conti. Dall’altra parte la storia degli ultimi cinquant’anni del Cile, a volte raccontata esplicitamente, a volte sottintesa con simboli e allegorie. In mezzo, però, c’è un film in cui spesso questi elementi non corrispondono e rimangono slegati; il risultato è che della storia gotica in sé, in fin dei conti, poco importa, e che gli elementi storico-politici finiscano invece soffocati da eccessi didascalici, semplificazioni e mortificanti e verbosi spiegoni. Ed è un peccato, perché non mancano trovate e guizzi divertenti e intelligenti, soprattutto quando Larraín osa di più e genera parentesi surreali (no spoiler, ma quando si scopre l’identità della voce narrante dall’accento molto British, il film per breve tempo decolla) e perché sul piano squisitamente visivo El Conde, nel suo elegantissimo bianco e nero, è di una bellezza indiscutibile. Troppo preoccupato che metafore e collegamenti siano chiari e troppo determinato a inserire nelle due ore scarse del film tutto il repertorio ideologico che ha sempre sostenuto il suo cinema, Larraín confeziona un film suggestivo ma confuso e faticoso, che non trova mai un’identità precisa e che naufraga per accumulo ed eccesso.

Di regimi militari e dittature parla anche il secondo film della giornata, Hollywoodgate, documentario fuori concorso firmato dal filmmaker egiziano Ibrahim Nash’at. Siamo in Afghanistan nel 2021, proprio all’indomani del ritorno dei Talebani e della fuga degli statunitensi ordinata da Joe Biden. Nash’at riesce a farsi ammettere al seguito dei Talebani, dietro la promessa di non fare riprese scomode, e documenta le vicende di due militari, Malawi Mansour, nuovo comandante dell’Aeronautica, e Mukhtar, soldato semplice che ha l’obiettivo di intraprendere una carriera di alto rango nell’esercito. L’aspetto più sconvolgente dell’indagine del documentarista egiziano è racchiuso già nel titolo: Hollywoodgate infatti è il nome dell’ex base della CIA a Kabul, nella quale gli americani in ritirata hanno lasciato l’equivalente di 8 miliardi di dollari di equipaggiamento militare tecnologicamente avanzato. Armi che diventano lo strumento fondamentale per il nuovo regime di Kabul per consolidare il proprio potere, sedare le rivolte e trasformarsi in una dittatura militare. Tra inquadrature rubate e riprese ufficiali e autorizzate, Hollywoodgate mostra la grossolanità dei Talebani, raccontati nei loro goffi e rozzi tentativi di strutturare un apparato simbolico gerarchico, facendo sembrare paradossale che l’esercito americano, tra i più avanzati del mondo, si sia non solo ritirato davanti loro, ma abbia finito per armarli.