Nell’anno del centenario pasoliniano, Gianni Amelio porta al cinema e in concorso a Venezia la vicenda di Aldo Braibanti, mirmecologo (studioso di formiche) e intellettuale la cui persecuzione indignò lo stesso Pasolini e che fu capace di dare scandalo nell’Italia perbenista degli anni ’60, per certi versi su territori analoghi a quelli dell’intellettuale corsaro.
Braibanti, infatti, venne accusato di plagio dalla famiglia di Giovanni Sanfratello, giovane che aveva aderito al laboratorio artistico fondato dall’intellettuale a Piacenza all’interno del torrione Farnese di Castell’Arquato, e si era poi trasferito con lui a Roma, dopo che tra i due era nata una storia d’amore. In un’Italia provinciale e arretrata, l’omosessualità di Braibanti non poteva essere accettata: fu così condannato dal tribunale di Piacenza, mentre Giovanni Sanfratello fu internato per oltre un anno in manicomio.
Amelio riprende questa vicenda e, pur concedendosi molte libertà, riesce a restituire il senso di ingiustizia di una vicenda assurda, che sottolinea con molta precisione il fatto come il termine “fascismo” non indichi soltanto un progetto politico, bensì una visione del mondo retriva, livida e oscurantista, che spesso ha caratterizzato e caratterizza anche l’ipocrita perbenismo di sinistra.

Il cinema del regista calabrese può apparire un po’ vecchio nella sua monolitica classicità, su alcuni personaggi di contorno tende al bozzetto (la famiglia del giovane plagiato, il magistrato e l’avvocato dell’accusa) e, pur comprensibilmente, perde spesso la distanza necessaria per approfondire in modo efficace una storia così dolorosa, ma il suo passo narrativo è solidissimo e limpido e soprattutto supportato da due attori eccezionali che Amelio mette in stato di grazia, Luigi Lo Cascio nei panni di Braibanti e un perfetto Elio Germano in quelli del giornalista dell’Unità Ennio.
Pasolini, che di persecuzioni purtroppo se ne intendeva bene, scrisse: Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Riportare in vista questo caso, oggi, in un presente in cui si parla di disturbi alimentari come devianze da “curare” con lo sport, è un gesto politico di grande importanza.