Ci sono romanzi “trappola”, che sembrano impossibili da trasferire in una forma diversa da quella in cui sono nati e per i quali il passaggio dalla pagina allo schermo appare uno spostamento irrealizzabile. Rumore bianco, romanzo cult della letteratura postmoderna, firmato dallo scrittore americano Don Delillo (1985), appartiene a questa categoria, tanto che – nonostante il grande successo del testo – fino a oggi, ogni ipotesi di trasposizione è naufragata praticamente sul nascere.
A sfatare il tabù ci prova (e ci riesce) il regista newyorchese Noah Baumbach (A Marriage Story, Il calamaro e la balena, The Meyerowitz Stories), che con White Noise ha aperto questa sera la 79ª edizione della Mostra del cinema di Venezia. Baumbach, infatti, non è stato schiacciato dal peso di questo labirintico e contorto colosso, ma è riuscito a confezionare un film importante, che enfatizza la straordinaria attualità del testo di Delillo.
Ma che cos’è il “rumore bianco”? In fisica acustica è quel suono che occupa uno spettro amplissimo di frequenze e si configura come una sorta di sottilissimo fruscio che rimane, in alcune situazioni, in costante sottofondo. Non ci si fa caso, in pratica, ma c’è, rimane e ci accompagna sempre. Se ci si concentra e lo si nota, però, ecco che può diventare un’ossessione.
Tanto nel capolavoro di Delillo, quanto nel film di Baumbach, il “rumore bianco” è una cosa ben precisa: la morte, o meglio il pensiero della morte. Questa metafora è la premessa per una lettura precisa del capitalismo, soprattutto nella sua apoteosi reaganian-trumpiana, edonistico e superficiale, colorato e vuoto, che viene raccontato come un gigantesco costrutto simbolico che impedisce al soggetto di incontrare il reale della morte e di pensare costantemente che, come dice uno dei personaggi chiave del film, «tutti marciamo insieme verso la non-esistenza».
Il capitalismo-morfina, insomma, che nelle pagine di Delillo emerge attraverso le continue descrizioni di oggetti-feticcio, da elettrodomestici e cibi in scatola, definiti fin nei più piccoli dettagli, come fossero tessere di un mosaico che deve stare unito per velare la Grande Paura, resa ancora più grande dalla vacuità dello stesso sistema che la scherma: la consistenza effimera e impalpabile del consumismo protegge dal pensiero della morte, ma rende così evanescente la vita stessa che basta un attimo perché il velo si squarci.
Ed è ciò che succede a Jack Gladney (Adam Driver), stimato professore universitario che dirige l’improbabile dipartimento di “studi hitleriani” (detto anche “nazismo avanzato”) in un’immaginaria ma molto vera cittadina del Midwest. Qui Jack vive con Babette (quarto matrimonio per lui, terzo per lei) e quattro figli, frutti assortiti dei reciproci precedenti matrimoni. L’intera cittadina ci viene raccontata in modo molto efficace da Baumbach, come immersa in una vorticosa e superficiale liturgia consumistica, che ha il proprio tempio nel coloratissimo e gigantesco supermarket, simbolo dell’orizzontalità della middle class americana del Midwest, tessuto sociale in cui dolore e gioia sembrano narcotizzati e la Storia è sprofondata in una vaneggiante piattezza, dove, per esempio, tra Hitler ed Elvis, non c’è poi così tanta differenza.
La prima screziatura in questo quadro, elemento interessante, attuale e giustamente enfatizzato dal film, è il sospettoso complottismo che caratterizza, a diversi livelli, tutti i personaggi che compongono la storia, costantemente votati alla paranoica consapevolezza che qualcosa, sempre e comunque, in qualsiasi contesto, viene inevitabilmente nascosto o pilotato da qualcuno. Lo squarcio vero, tuttavia, si verifica quando poco fuori dalla cittadina, un treno carico di materiali tossici si ribalta ed esplode, rilasciando nell’aria una sostanza nociva che spinge le autorità a evacuare, precauzionalmente, tutti gli abitanti. Il pensiero della morte, rimosso a colpi di surgelati e tutine colorate, ritorna come una nube tossica, che fa detonare paranoie e sospetti. Non resta che rivolgersi al Dyler, un misterioso psicofarmaco che toglie ogni paura, ma con effetti collaterali imprevedibili.
Baumbach è spesso stato accostato in passato a Woody Allen, con il quale, però, i suoi film precedenti in fin dei conti condividevano solo la newyorchesità e la volontà di andare a fondo nella psicologia complessa di personaggi irrisolti e di dinamiche relazionali complesse. La sua messinscena è sempre stata però molto più sofisticata e virtuosistica, elemento che viene qui radicalizzato: il mondo finto dentro cui si svolge White Noise viene esplorato minuziosamente con virtuosistici piani sequenza e inquadrature mai banali, che mettono in risalto la soffocante vacuità degli spazi e degli ambienti in cui muovono i protagonisti.
Al solito, la capacità di Baumbach dirigere gli attori e di modellare i dialoghi è eccellente. Adam Driver, imbolsito e attraversato dall’ansia costante, fornisce una prova eccellente, così come Greta Gerwig, ricca di sfumature e intensità.
Imperdibile la sequenza dei titoli di coda, che vede il ritorno (dopo 5 anni) della band indie rock americana LCD Soundsystem, con un nuovo singolo, New Body Rhumba.
La 79ª mostra, quella del 90° anniversario (1932-2022), si apre nel migliore dei modi, con un grande film americano che sembra indicare la linea editoriale di questa edizione del festival, cioè il racconto impossibile dell’inafferrabile complessità di questi tempi bui.