Newyorkese purosangue, di vivacità intellettuale e curiosità insaziabili, Martin Scorsese è irrefrenabile. Anche adesso sulla soglia degli 80 anni, il regista di origine italiana continua a immaginare e realizzare film, documentari, progetti, restauri cinematografici.
Nove candidature all’Oscar come miglior regista, l’ultima per “The Irishman”, Oscar per “The Departed” nel 2006, 69 film da regista, sceneggiature, produzioni, documentari, Scorsese è il cinema.
Il cinema lo studiato alla NYU, prima lo aveva vissuto sulle strade di Little Italy, fra preti, mafiosi e paesani, più tardi lo ha insegnato, ad una generazione di registi da Oliver Stone a Spike Lee. Oggi si batte per preservarne la memoria: con la sua Film Foundation ha contribuito a restaurare oltre 700 film.
Il suo ultimo progetto, “Killers of the Flower Moon”, lo vede di nuovo a fianco di Di Caprio e De Niro. Tratto dal best-seller di David Grann, uscirà a maggio 2023. Ambientato nell’Oklahoma degli anni ’20 descrive una sfilza di brutali assassini di “native american” della Osage Nation, in quello che sarà ricordato come “il regno del terrore”, il periodo in cui il petrolio venne scoperto nella loro terra. Nel frattempo ha in lavorazione una serie su Mike Tyson, una tratta da “Gangs of New York” di cui è regista e produttore, un’altra dal “Diavolo e la città bianca”, un film come produttore su un giovane che vuole lavorare per Henry James, “Maestro” su Leonard Bernstein diretto e interpretato da Bradley Cooper, un documentario su Powell e Pressburger e infine una serie su Theodore Roosevelt.

Nato a Flushing, Queens, è cresciuto a Little Italy a Manhattan. La sua passione per il cinema è iniziata un giorno in cui a casa malato ha visto in televisione “Paisà” di Roberto Rossellini, e ha capito che l’arte può migliorare il mondo.
Il cinema italiano gli è rimasto nel cuore e lo ha celebrato nel documentario Il mio viaggio in Italia. Con orgoglio ricorda che i genitori provenivano da Ciminna e Polizzi Generosa, due paesi in provincia di Palermo, e a loro ha dedicato il documentario Italian-American. Diventato genitore a sua volta, di tre figlie, ha ora l’orgoglio di vedere la più giovane, Francesca, 22 anni, incamminata a sua volta sulla via del cinema. È una delle interpreti della serie televisiva di Luca Guadagnino “We Are Who We Are”.
E proprio la famiglia è l’inizio dell’ultima delle tante conversazioni che ho avuto con lui nel corso degli anni.
La famiglia: in che misura ha influito sul suo cinema?
Il solo fatto di aver spesso usato mia madre per piccoli cameo nei miei film la dice lunga. Il sangue italiano non mi ha mai permesso di staccarmi completamente dai miei. Eravamo due fratelli. Mio padre ne aveva otto, mia madre nove. Mio fratello ha sette anni più di me, quindi da piccolo sono cresciuto quasi come figlio unico, viziato da mamma. I nonni venivano dalla Sicilia e la nostra casa era sempre piena di parenti, zii, cugini, un caos! Un imprinting italiano che mi ha definitivamente segnato anche come cineasta.
Pensando ai suoi inizi, cosa consiglia oggi ai giovani aspiranti registi?
“Devono riuscire a esprimersi creativamente tramite il mezzo cinematografico, divenire dei narratori, visualmente parlando. la tecnica poi si può acquisire, ma la grinta e l’ambizione le devi avere. Devi sentire che non puoi dormire, mangiare, vivere se non riesci a entrare in questo mondo. Perché questo DEVE essere il tuo mondo. Se non senti questo lascia perdere. Un regista, come uno scrittore o un qualsiasi altro artista, non può o sa fare altro. Un giovane deve capire se ha questo fuoco dentro. Orson Welles ha detto: “Puoi imparare come funziona una cinepresa in quattro ore: quello che ci fai poi dipende da te.” Imparare si può, il resto e’ lotta ed entusiasmo. Se perdi l’entusiasmo – e succede – è finita”.
E a lei è successo?
“Certo. E allora vedere i grandi film del passato mi aiutava a ritrovare la voglia. Hitchcock, tutti i suoi film degli anni ’60. E poi tutto il neo-realismo italiano, Rossellini, De Sica, Fellini. Vedo “Amarcord” o “La Strada” e mi riconcilio con tutto”.

Sappiamo che ama molto anche Michelangelo Antonioni…
“Vero. E Visconti. Anche per questo tengo molto al restauro di quei vecchi film italiani, perché è importante che i giovani li vedano sul grande schermo. Ricordo la prima volta che vidi “L’avventura” di Antonioni, nel 1961: scoprii il mondo sotto una diversa prospettiva. Antonioni ci ha insegnato un modo diverso di affrontare il ritmo e lo spazio. Ci ha insegnato a fermarci. I film andavano sempre piu’ veloci, i film americani intendo, e la Nouvelle Vague francese, Antonioni era una cosa rara, rallentava, era un pittore colto nel gesto, nell’analisi delle emozioni. “L’eclisse” e “Deserto rosso” sono altri due film che mi hanno segnato molto come regista”.
Conservazione dei film: come e’ nato questo suo attivismo?
“Quando ero un giovane regista un giorno al cinema ho visto un double feature, due film con lo stesso biglietto di entrata: “Niagara” e “The Seven Year Itch”, della Twentieth Century Fox, protagonista Marilyn Monroe e realizzati a soli due anni di distanza. “Niagara”, stampato su nitrato Technicolor, era in ottime condizioni, mentre la celluloide monopack di “The Seven Year Itch” era già sbiadita. Era talmente scolorita che il proiezionista aveva messo dei filtri sulla lente del proiettore per cercare di correggere il colore. Una pena. Mi venne voglia di uscire dal cinema alla fine del primo tempo. Ma fu allora che mi si accese la voglia di restaurare e conservare le pellicole. Con la Film Foundation riuniamo gli archivi, insieme agli studios e decidiamo i restauri di volta in volta. La storia del cinema passa per le nostre mani”.
Lei e Robert De Niro avete fatto un pezzo di storia del cinema, un sodalizio raro…
“Non pensavamo certo, quando abbiamo girato “Mean Streets” (1973) che ci “saremmo sposati” e avremmo poi fatto otto film insieme nel corso di vari decenni. Bob ed io abbiamo la stessa eta’, stessa città, stesse frequentazioni, memorie, musica, punti di riferimento culturali e umani. Era inevitabile che si stabilisse un legame strettissimo tra di noi. Ci capiamo al volo, capiamo quello che stiamo dicendo e a cui ci stiamo riferendo”.
Ma il vostro milieu era differente, o no?
“Vero, lui veniva da una famiglia di artisti del West Side di Manhattan, io da una famiglia di operai dell’East Side. Ma il resto era uguale. Una cosa simile e’ successa anche con Leonardo di Caprio, che potrebbe essere mio figlio: quando ho lavorato con lui per la prima volta per “Gangs of New York” abbiamo scoperto che avevamo delle affinità, nonostante la differenza di eta’, in quanto a gusti artistici, cinematografici, musicali e via dicendo. Ricordo che misi un disco di Django Reinhart e Leonardo lo riconobbe con entusiasmo perché, disse, era cresciuto con quella musica, che il padre artista gli faceva ascoltare. Insomma, le affinità elettive non conoscono eta’. Con Bob il nostro legame e’ stato viscerale, con altri attori magari più mediato e intellettuale. Ma non per questo meno umano e sentito”.
Dopo “The Irishman” con la Netflix ora il suo nuovo film “Killers of the Flower Moon” sara’ con la Apple: il cinema sarà in streaming?
“Netflix mi ha garantito libertà creativa totale. In cambio mi ha chiesto lo streaming e poi la distribuzione nei cinema. Con la pandemia ogni parametro e’ saltato e lavoriamo come possiamo, ma queste compagnie sono serie e garantiscono agli artisti assoluta libertà. 40 anni fa “Alice doesn’t live here anymore” aprì in pochi cinema per una sola settimana per qualificarsi agli Oscar. “King of Comedy” uscì nei cinema per una settimana e poi sparì! Il flop dell’anno!, anche se poi e’ stato rivalutato. Bisogna mettere tutto in prospettiva: meglio streaming che niente. Anche se io, da buon cinefilo, non potrei mai rinunciare al grande schermo e al buio della sala”.
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