Ero in guerra ma non lo sapevo, uscito nelle sale italiane il 24 gennaio 2022 con la regia di Fabio Resinaro e la produzione di Luca Barbareschi, ha da subito rapito il grande pubblico: dopo un mese al cinema, Rai 1 lo ha trasmesso in prima visione il 16 febbraio, totalizzando 2.294.000 spettatori.
Ispirato all’omonimo libro di Alberto Dabrazzi Torregiani e Stefano Rabozzi, il film ha un cast di tutto rispetto: Francesco Montanari è Pierluigi Torregiani, il gioielliere ucciso a Milano da tre membri dei Proletari Armati per il Comunismo il 16 febbraio 1979 e Laura Chiatti impersona la moglie Elena.
Barbareschi, attraverso la sua produzione, ha voluto raccontare una vicenda sulla quale rimangono zone d’ombra anche a quarant’anni di distanza.
Barbareschi, cosa ha voluto dimostrare attraverso la produzione di questa pellicola?
“Penso di aver toccato un argomento tabù. Non è mia intenzione esagerare, ma per almeno trent’anni in Italia abbiamo avuto il problema del fiancheggiamento di un certo tipo di stampa – e anche di un certo tipo di intellighenzia – a favore del terrorismo e a discapito della borghesia.
Molti sceneggiatori non hanno voluto raccontare questa storia, scomoda per i compagni rivoluzionari. Esiste però un dato di fatto: col senno di poi, tutti i nuclei armati proletari si sono dimostrati, anche per loro stessa ammissione, dei cialtroni e dei normali delinquenti. Abbiamo avuto fior di intellettuali, anche stranieri come la scrittrice Fred Vargas, che hanno appoggiato finanziariamente la latitanza del pluriomicida Cesare Battisti. La cosa più comica, anzi tragicomica, è quando Battisti, confessando il suo ‘Ho preso in giro tutti’, ha ammesso di essere un delinquente comune, perchè di rivoluzionario nella sua vicenda non c’era proprio nulla”.
Ieri Cesare Battisti veniva protetto dai governi stranieri e considerato un perseguitato politico, oggi ha confessato gli omicidi, avallando una verità processuale emersa con il tempo. Cosa ne pensa di questo cambio di rotta?
“Ciò che è accaduto è l’aspetto più grave di questo Paese: l’ideologia ha tenuto uniti tutti coloro che la rappresentavano dal punto di vista intellettuale. Chi era dalla parte ‘giusta’ ha potuto scrivere sui giornali, avere le dirette televisive dal carcere, avere spazio sui media. Io, negli anni di cui parla il film, potevo scegliere di entrare nella lotta armata, ma non l’ho fatto. Ho preferito ragionare nel rispetto della vita degli altri, perché la vita è un dono e nessuno può permettersi di toglierla. Anche per un’ideologia che magari è condivisibile. Non è democrazia il ‘Ti uccido perché non la pensi come me’, o il ‘Ti uccido perché tu sei ricco e faccio l’esproprio proletario’. Nel caso di Pierluigi Torregiani, trattavasi di un piccolo borghese che aveva una gioielleria”.
Lei è stato deputato della Camera dal 2008 al 2013, prima con il centrodestra, poi nel gruppo misto. Cosa pensa oggi della politica?
“Mi considero un uomo libero. Sono, e sarò per tutta la vita, un vecchio socialista. Ed è molto difficile oggi spiegare, per noi socialisti, cosa è successo da Tangentopoli in poi. Forse oggi è più facile per le persone capirlo, quando vedono cos’è diventata la Magistratura. Per me aver militato nel centrodestra voleva dire, come molti socialisti, dire di ‘No’ a tutta una parte della sinistra italiana complice di Tangentopoli che è servita solo a mettere in ginocchio un Paese. Craxi aveva fatto una politica contraria alle attività americane. Mi riferisco a Sigonella, ad esempio. Io voglio essere un cittadino che paga le tasse, in una nazione dove si tenga conto delle esigenze dettate dal criterio dell’equità e soprattutto dove le multinazionali queste tasse le paghino”.
Si dia un giudizio come attore, regista e produttore.
“Mi dò un ottimo voto come produttore, perché ho prodotto cose, da Polansky a Mamet, di cui sono molto orgoglioso. Penso di essere un buon attore, ho fatto teatro tutta la vita, soffrendo molto anche la forzata chiusura politica – perché è stata politica – dell’Eliseo. Come regista ho fatto poche cose per poter dare un giudizio, ma ho sempre diretto con molta onestà intellettuale. Ricordo Ardena, una commedia del 1997 molto carina e romantica. Nel 2002 ho fatto il Trasformista e nel 2013 Something good, sul traffico alimentare, che non venne preso in nessun Festival solo perchè non appartengo a quel certo ‘giro’ di amici che comanda in Italia”.

Lei ha finanziato il teatro Eliseo. Perché è diventata una vicenda dolorosa?
“Non è mai successo nella storia di questo Paese, dall’epoca di Rossini, che un artista comprasse un teatro, mettendo sette milioni di euro per acquistarlo e sette per ristrutturarlo. Il mio merito nel Teatro italiano è aver messo finanze, passione e capacità, tanto che l’Eliseo era diventato già dopo un anno il primo teatro italiano. Ovviamente è stato subito punito e hanno tolto tutte le sovvenzioni”.
Lei cresce a Milano con suo padre, fino a diciassette anni. Che infanzia ha avuto?
“Sono nato a Montevideo, in Uruguay, e lì sono rimasto fino a cinque anni. L’ho sempre visto come un posto epifanico e lontano. Mia madre è scappata con un altro uomo quando ero piccolo: posso dire di aver vissuto una vita abbastanza infernale. Poi sono stato a Beirut, perché mio padre lavorando all’estero mi portava ogni tanto con sé e io studiavo a distanza. Dopo è toccato a Roma, dove ho frequentato sei mesi lo Studio Fersen: mi sembrava una città pigra e lenta. Ho avuto l’occasione di lavorare al Teatro di Verona come assistente regista di Virginio Puecher, nella messa in scena dell’Enrico V. In seguito, sono ritornato in America, stavolta nel nord, trasferendomi prima a Chicago e poi a New York. A Chicago ho fatto opera lirica con Placido Domingo, rimanendo lì quasi un anno. Poi al Metropolitan, grazie ad una lettera di presentazione di Puecher. Sono entrato giovanissimo all’Actors Studio con Strasberg, Kazan, Reyes. Il momento più commovente per me è stato, per i miei quarant’anni di carriera, una bellissima prolusione che ho fatto al Marilyn Monroe Theatre di Strasberg, davanti a una platea di tutti i membri. Al Pacino era uno di loro, per dire un nome tra i presenti. Ero talmente emozionato che a metà mi sono commosso.”

Quali sono gli anni newyorkesi?
“Dal 1974/1975 fino al 1981. Sono poi stato per lavoro anche a Los Angeles, ma alla fine sono tornato definitivamente in Italia”.
E della New York di quel periodo che ricordo ha? Quanto la trova diversa oggi?
“Era la città più ebraica del mondo, e io sono un ebreo. Mi trovavo molto a casa. New York, va detto, non è l’America: è un’isola, almeno lo era. Adesso è molto cambiata. Molto più commerciale. Io vivevo in un piccolo monolocale e andavo con Wim Wenders a fare il film documentario Lampi sull’acqua, con Nicholas Ray, che era il mio insegnante di cinema. La vita era stimolante e molto a buon mercato: si poteva vivere con poco. Oggi a New York vado e torno. Ho casa, sono residente in America. Ho green card e passaporto. Dei miei sei figli, due sono americani. Uno vive proprio nella Grande Mela”.
Cosa pensa di Joe Biden?
“È un problema della politica del mondo: mi chiedo perché la rappresentanza politica non sia all’altezza dei cittadini. Ormai non c’è più politica: c’è economia, c’è finanza. Anzi: finanza speculativa. Ed è molto difficile per qualsiasi Presidente prescindere dai grandi fondi speculativi internazionali. Penso che l’America sia un grande Paese. Un paese molto, molto potente. Non a caso fa progetti politici industriali, vedi Netflix. Oppure Discovery, Apple, Amazon. In America si fanno progetti industriali, culturali, di narrazione per colonizzare il mondo. Tutto sommato, dico chapeau ai paesi che hanno delle strategie precise. In Italia questo manca. Noi in realtà dovremmo imitare i francesi e difenderci dalle colonizzazioni”.
Una carriera da attore, regista e produttore. Lei che cosa preferisce fare?
“La mia ferita dell’Eliseo è mortale. Non perdonerò mai gli attuali reggenti di impedirmi di fare il mio mestiere. Il teatro è la nascita di tutto. È il luogo di restituzione, di rielaborazione affettiva. Il cinema, la fiction, la televisione: sono cose diverse. Alla televisione di intrattenimento devo l’essere un attore molto più duttile di quello che ero una volta. Se oggi sono in grado di fare one man show di due ore, suonando ed improvvisando, lo devo anche alla televisione”.
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