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April 25, 2022
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Una Lucia di Lammermoor “pulp” al Met di New York

Recensione di una produzione "trash" più populista che popolare, tra eserciti di zombie e torte in faccia

Michele Valle PerinibyMichele Valle Perini
Una Lucia di Lammermoor “pulp” al Met di New York

Lucia di Lammermoor al Met

Time: 5 mins read

Gli spettacoli ci dicono moltissimo sul loro pubblico. O almeno sull’idea di pubblico che hanno i registi.

Il 23 aprile, al Met ha debuttato una nuova produzione della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Una Lucia pulp per la quale verrebbe voglia di suggerire alla direzione del Met di offrire a ogni spettatore un bel cestino di pop-corn, con l’obbligo di consumarli entro il primo atto. Si sarebbe sicuri di avere così il pubblico nella disposizione mentale adatta all’ispirazione del regista, il celebre Simon Stone.

Per dire. Nella sua finale follia Lucia si trova contornata da un piccolo esercito di zombie, tutti ricoperti di una doccia di sangue come quella che la irrora dalla testa ai piedi (non contenta di avere ucciso il marito, deve essersi rotolata su di lui per ridursi come una massaia alla quale sia esplosa la pentola coi pelati).

In questa deriva trash è coinvolta non solo la rappresentazione (ci complimentiamo coi cantanti per l’agilità atletica con cui salgono e scendono da cofani e tetti di vetture mezze sfasciate), ma anche la trama. Sicché finalmente Stone risponde agli interrogativi di un pubblico che non ha la minima idea di cosa voglia dire “morire d’amore”, servendogli la risposta all’annosa questione: come muore davvero Lucia? Possibile che si spenga semplicemente (semplicemente!) perché travolta dal dolore?

Per carità questi sono romanticumi ai quali nessuno può credere più, buoni per un tempo in cui anche Manzoni faceva morire così, nell’Adelchi, la sua Ermengarda. Vi ricordate?

Sparsa le trecce morbide
su l’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel

Per carità, vecchiumi da mettere da parte, nella soffitta gozzaniana di Nonna Speranza, tra le “buone cose di pessimo gusto”: “le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, / i dagherottìpi: figure sognanti in perplessità, // il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone / e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, // il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco / chèrmisi…. rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!”

Ma oggi chi ha voglia davvero di rinascere così? O chi pensa che così si possa morire? E dunque si dia una morte verosimile a Lucia. Stone si mette d’impegno e trova la risposta.

Di cosa veramente muore Lucia? Di un bel colpo di pistola che la sventurata si spara in bocca. Non vediamo nel dettaglio gli effetti, ma tutto il contesto ci aiuta nell’immaginarli. Cervella, ossa, liquidi corporei schizzati dovunque. Il ritorno del rimosso romantico da fatto psicologico si trasforma in fatto fisiologico.

Una soluzione geniale di cui proponiamo l’applicazione su larga scala. Isotta non morirà più piangendo su Tristano. Non sarà la pena ad ucciderla. Anche in quel caso un colpo di pistola andrà benissimo. Certo all’epoca di Tristano e Isotta le pistole non ci sono, ma la soluzione è semplice: spostare la vicenda al tempo di West Side Story, come ha fatto Stone. La questione si risolve così alla radice. E grazie al cielo non ci saranno più dubbi. Altro che complicazioni psicologiche, sofferenze interiori, tormenti infiniti. L’Isotta di Wagner andrà a prendere il suo bel revolver in negozio e la farà finita in un attimo, eventualmente guardando il pubblico con occhi da folle da cinema muto.

Allo stesso modo gli Dei non uccideranno più nelle opere di Gluck con una decisione ultraterrena, ma sganceranno bombe, e Violetta nella Traviata non tradurrà la sua disperazione nella tisi che la consuma, ma prenderà una decisione radicale facendosi fuori con una molotov per ridurre in macerie l’intero suo condominio, da vera terrorista dell’ordine borghese. Sullo sfondo resterà la memoria di romantici impenitenti come Aznavour: “Per amare te fino in fondo / Posso dire basta al mondo / E sarà logico per me / Morir d’amore”.

Naturalmente spostare Lucia di Lammermoor dal mondo romantico – dove prima di Freud si scoprono le tempeste del preconscio – a quella di un theme park americano, ha i suoi rischi.

 

Siamo in una provincia finta, fintissima, dove il cattivo fuma in continuazione (benché debba cantare e anche se politically la scelta è piuttosto scorretta) trangugiando superalcolici a garganella.

Succede un po’ di tutto in questo villaggetto da Luna Park, comprese le torte in faccia, che piacciono tanto ai bambini (la categoria non è più legata all’età, a giudicare dall’entusiasmo di una parte del pubblico). Il regista sa conquistare gli applausi del suo uditorio: come sempre accade in America, e come sanno benissimo i grandi oratori, non bisogna mai essere troppo seri, ma il riso è necessario, così come un bel pugno nello stomaco se ci sono cose importanti da dire.

Eppure, il rischio è che non solo la recitazione (i movimenti, i gesti, le espressioni), ma il canto vada alla deriva verso un ambito verista che con Donizetti non c’entra  proprio per nulla. La “nuova” morte di Lucia, e tutte le scelte di Stone, ci avvicinano all’universo di un Puccini (anche se Madama Butterfly sceglie più modestamente un pugnale), di un Leocavallo, di un Mascagni. Gli effetti si sentono nelle voci, perché naturalmente è impossibile per artisti sensibili distinguere nettamente tra recitazione e  canto. Improvvise emissioni sguaiate rendono assolutamente inutile e persino fastidiosa la bellissima voce di Nadine Serra, e ci ricordano che l’opera è questione di stile, non solo di natura e di potenza sonora.

Il canto, però, è l’ultima delle preoccupazioni del regista. Il quale sembra preoccupato di inventare diversivi che possano interessare un pubblico che non è più quello dei teatri, ma quello degli anfiteatri: panem et circenses. “Circenses” soprattutto con una scena che gira in continuazione, come il circo di un carillon, creando un effetto straordinario: il delirio di Lucia viene trasmesso agli spettatori, anche se assomiglia più al mal di macchina che alla follia.

Ma in fondo la follia cos’è? Un malessere fisico, niente di troppo profondo. Non è il caso di disturbare troppo un’audience che non distingue più tra l’opera e i musical di Broadway. Si salvano comunque l’orchestra e la direzione di Riccardo Frizza, che ci regala i pochi momenti magici di una produzione più populista che popolare, e dunque salutata con grande entusiasmo.

Davvero, gli spettacoli ci parlano del pubblico che li segue. E non bisogna lamentarsi troppo. La Lucia regge anche grazie a questi equivoci che la aggiornano. O meglio la reinventano. Basterebbe confrontare il libretto originale con i sottotitoli in inglese proposti al pubblico del Met. Scompaiono castelli, destrieri, regni. La sottotitolatura non traduce ma riscrive il testo originario secondo la pratica dell’over-writing che Stone stesso ha teorizzato.

E Lucia non parla più entro un orizzonte lunare, come altre prime donne di Donizetti o di Bellini. In alto ci sono dei lampioni, la luna sparisce e finalmente i futuristi dimostrano di aver avuto ragione: uccidiamo il chiaro di luna, uccidiamo Lucia!


Lucia di Lammermoor al Met: Soprano (Lucia) Nadine Serra; Tenore (Edgardo) Javer Camarena; Baritono (Enrico) Artur Ruciński; Basso (Raimondo) Matthew Rose; Direttore Riccardo Frizza; Regista, Simon Stone.

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Michele Valle Perini

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