Solo un grande talento può sfidare i pregiudizi e le convenzioni sociali. Misty Copeland, la ballerina di origini afroamericane nata a Kansas City, riesce a diventare un’étoile internazionale nonostante si definisca unlikely, “improbabile” nella sua autobiografia [Life in Motion: An Unlikely Ballerina, Touchstone, 2014]. Dopo un’infanzia difficile vissuta ai limiti dell’indigenza, tormentata da continue crisi familiari, è poco più che un’adolescente quando si accosta al mondo della danza: tardi, secondo i consueti parametri accademici. Eppure, danzando sulle ali del sogno, sorretta da un’irresistibile passione e da una ferrea determinazione, la Copeland diventa ben presto una celebrity, conquistando nel 2015 l’ambito ruolo di principal dancer dell’American Ballet Theatre di New York, l’Olimpo della danza classica americana.

È la prima volta in quel ruolo per un’afroamerica nei 75 anni di storia della compagnia. È solo il primo dei tabù infranti dalla danzatrice destinata a rendere il mondo della danza più inclusivo, e non solo dal punto di vista razziale. Dotata di un fisico atletico, decisamente curvy, apparentemente inadatto alla leggiadria coreutica, Misty Copeland rivoluziona l’estetica del balletto, imponendo il modello di una fisicità sana, prorompente e sensuale, l’esatto contrario del cliché imperante della “ballerina-grissino”. Grazie all’affermazione della sua personalità individuale, diventa una vera e propria icona pop, testimonial di numerose battaglie sociali. Nominata nel 2014 da Barack Obama membro del President’s Council on Fitness, Sports and Nutrition, che promuove l’educazione al movimento e all’alimentazione sana tra i cittadini americani, negli anni più recenti la ballerina si è impegnata in prima linea anche nel movimento attivista internazionale Black Lives Matter, votato alla lotta contro il razzismo.
La scrittrice e giornalista Cristina Sarto, che ha dedicato all’étoile il suo ultimo libro Misty Copeland. La mia anima sulle punte (Battaglia Edizioni, febbraio 2022), ne parla a La Voce di New York.
Da dove nasce la sua passione per la danza, che valorizza anche nella sua attività di giornalista?
“Ho praticato ginnastica ritmica a livello agonistico dagli 11 ai 19 anni. Mi allenavo quotidianamente e la danza classica, in particolare lo studio della sbarra, era una parte fondamentale del training. Un’esperienza che mi è rimasta dentro, di cui sono molto orgogliosa. La ginnastica e la danza hanno plasmato la mia mente: mi hanno insegnato la disciplina, lo spirito di sacrificio, l’attenzione maniacale ai dettagli. Valori che mi hanno accompagnato nello studio e poi nel lavoro”.

Perché ha deciso di dedicare un libro a Misty Copeland?
“L’ho fatto perché Misty Copeland è un personaggio ricchissimo di sfumature: la sua storia contiene tante storie insieme e tutte sono portatrici di temi, valori, battaglie di cui è necessario parlare in Italia, dove sono tornata a vivere nel settembre del 2019. Il primo tema a me molto caro è certamente quello del riscatto sociale: sapere che una bambina povera, apparentemente destinata a una vita priva di grandi successi, sia riuscita a eccellere in un mondo così elitario come quello del balletto, ci racconta molto del potere dell’auto-determinazione. Mi piacerebbe che qualche ragazzina, leggendo queste righe, inizi a credere di più in se stessa e nelle sue possibilità. Credo inoltre che in un Paese che ha ancora molto da imparare in tema d’integrazione razziale e lotta agli stereotipi sia importante raccontare la storia di una donna afroamericana vincente: non sono solo i calciatori o i rapper di colore a farcela, insomma. Infine, Misty Copeland è un meraviglioso esempio di celebrity che avverte su di sé una certa responsabilità: ha una piattaforma da cui parlare e la usa per portare avanti battaglie importanti, all’insegna dell’inclusione e della giustizia sociale. Sono ancora pochi in Italia i personaggi in Italia che condividono questo impegno”.
Il suo incontro fatale con la ballerina avviene a New York. Ce lo vuole raccontare?
“Speravo di intervistarla dal 2015, da quando cioè la notizia della sua nomina a principal dancer è finita sui media americani. Ci avevo provato diverse volte, ma Gilda Squire – la sua manager – aveva sempre respinto con gentilezza le mie richieste. Nel 2019 finalmente iO Donna, uno dei magazine per i quali scrivevo, mi ha offerto la chance di un incontro con Misty, che in quel periodo stava promuovendo il suo debutto cinematografico, un cameo nel film Disney Lo schiaccianoci e i quattro regni. L’ho incontrata nell’ufficio della Squire e mi sono trovata una donna minuta, esile, con un filo di trucco e i capelli legati in una coda. Gentile, interessata alle mie domande, seria, attenta a prendersi il giusto tempo per rispondere in modo approfondito. Non era scontato. A volte mi era capitato di intervistare celebrities che rispondevano con frasi confezionate a tavolino, in modo disinteressato, come se le loro parole non avessero un impatto”.
La Copeland è diventata, oltre che un’étoile mondiale, una vera trailblazer. Ci vuole spiegare il senso di questo termine?
“Trailblazer significa “apripista” e Misty Copeland lo è davvero. Basti pensare che il balletto è nato nelle corti europee dell’800: è quindi un’arte creata dai bianchi per il divertimento dei bianchi. I ruoli iconici del repertorio classico, quelli che incarnano purezza, amore, eleganza, spiritualità, sono sempre stati assegnati a danzatrici dalla pelle diafana e filiformi, corrispondenti cioè al cliché dominante della prima ballerina. Al contrario, le poche artiste nere vengono ritenute perfette per incarnare personaggi che esprimono erotismo, aggressività, carnalità. Misty Copeland, nonostante le curve, i muscoli da atleta e la pelle nera, spazza via questi stereotipi. Nel 2015, qualche mese prima che venga incoronata principal dancer, è la prima ballerina afroamericana a recitare sul prestigioso palcoscenico del Lincoln Center il ruolo di Odette/Odile, la regina dei cigni, ne Il Lago dei Cigni”.

Nel 2015 Misty Copeland diventa la prima principal dancer afroamericana dell’American Ballet Theatre di New York. Cosa cambia nella storia della danza americana?
“Con la sua nomina a principal dancer, Misty Copeland crea una crepa nel mondo del balletto americano. La notizia rimbalza sui media e da quel momento tutti sono costretti a riconoscere che la danza classica era sempre stata l’ennesimo bastione della supremazia bianca. A quel punto le altre compagnie non potevano più girarsi dall’altra parte: anche loro dovevano prestare attenzione al tema della diversità, anche perché da quel momento il pubblico sapeva che un’étoile di colore già esisteva ed era bravissima. Misty Copeland ha dato il via a un processo d’inclusione, che continua ancora oggi e sul quale – come sottolinea sempre lei – bisogna ancora lavorare. È vero: ci sono sempre più ballerine di colore, ma sono ancora una piccola percentuale. E ci sono ancora poche donne (di qualsiasi etnia) nel ruolo di manager, direttrici artistiche, coreografe”.
Dal punto di vista estetico, quali stereotipi è riuscita a sovvertire?
“Il balletto americano si è sviluppato grazie alla spinta dei ballerini russi che a partire dall’inizio del Novecento sono emigrati negli Stati Uniti, importando insieme alla loro arte anche il cliché della ballerina alta, filiforme, bianca. Uno stereotipo che ha trovato conferma con George Balanchine, il ballerino-coreografo russo poi naturalizzato americano che ha co-fondato il New York City Ballet nel 1948. Le sue artiste sembravano indossatrici. Misty Copeland ha imposto un modello estetico diverso: ha muscoli da atleta, il seno prosperoso, le spalle larghe. Eppure la sua tecnica è ineccepibile”.

Nel suo libro sono presenti interviste esclusive a star della danza come Roberto Bolle e il fotografo di fama internazionale Fabrizio Ferri, che hanno avuto stretti rapporti con la ballerina. Che tipo di ritratto ne emerge?
“Roberto Bolle ha incontrato la prima volta Misty Copeland nel 2012, quando la ballerina stava preparando il debutto di Firebird, l’Uccello di Fuoco, il primo grande ruolo da solista della sua carriera. Roberto era a New York per lavorare con l’American Ballet Theatre, di cui era principal dancer, e in sala prove è rimasto folgorato dalla presenza scenica di Misty. L’ha voluta con sé al Teatro La Scala di Milano per Romeo e Giulietta, nel dicembre del 2016, e in quell’occasione è rimasto colpito dalla sua professionalità. Misty era arrivata a Milano la sera precedente, era la sua priva volta al Piermarini e avevano solo un giorno per provare. Eppure era stata impeccabile, sorridente, sicura di sé. Il ritratto di Fabrizio Ferri, fotografo ufficiale dell’Abt ai tempi del debutto di Misty in Firebird (2012), è ancora più personale. Mi ha raccontato di una donna molto seria, professionale, intelligente, ma soprattutto dotata di un talento che solo i grandi artisti possiedono: quello di assorbire come una spugna le esperienze della vita, per poi restituirle sul palcoscenico attraverso i personaggi che interpreta”.
Pensa che questa figura abbia contribuito a rendere il mondo della danza classica più pop e meno di nicchia?
“Sicuramente, almeno quello della danza americana. Quando Misty ha debuttato con Firebird, nel 2012, per la prima volta il Lincoln Center si è riempito di un pubblico diverso: afroamericani, ragazzine con l’apparecchio ai denti e lo smartphone in mano, uomini che finalmente accompagnavano le mogli a vedere il balletto. Ma se oggi il balletto è più pop, più democratico, lo si deve anche all’intuito della Copeland, che l’ha spinta a “sposare” progetti apparentemente molto lontani dal mondo delle étoile. Penso alla collaborazione con Prince, con cui si è esibita in tourneé al Madison Square Garden di New York e nel sud della Francia. E anche alla pubblicità di Under Armour, diventata virale nel giro di pochi giorni, che le ha permesso di entrare nelle case di tutti gli americani, anche di quelli che non avevano mai messo piede in un teatro”.
Coraggio, determinazione e sfida alle convenzioni. Un’ispirazione per le giovani donne che ambiscano al successo senza compromessi?
“Decisamente sì. Una sfida a chi si arroga il diritto di dire a noi donne, soprattutto a quelle più giovani, che non ce la faremo mai a raggiungere i nostri obiettivi, che non siamo portate per una certa attività, che faremmo meglio a dedicarci ad altro. La lezione di Misty Copeland è questa: mai adeguarci alle etichette che gli altri pretendono di appiccicarci addosso. Al contrario, dobbiamo lavorare duro per sviluppare il nostro talento, che come ha detto bene Fabrizio Ferri, è qualcosa di prepotente e misterioso, che non conosce confini e trova sempre una strada per emergere”.