Più o meno un paio d’anni fa, quando un devastante incendio minaccia l’area di Los Angeles, compresi gli studi della Warner Bros., scatta l’ordine di evacuazione degli studios. Le fiamme, sulle colline, sono vicine. “Dad, let’s go away”. Dad scuote la testa: “There’s work to be done”.
“Dad” è Clint Eastwood. E’ impegnato in sala di missaggio del suo “The Ballad of Richard Jewell”. Clint ha 89 anni, una sessantina di film interpretati alle spalle, una cinquantina diretti; e non ha alcuna voglia di interrompere, impegnato com’è nello “scrivere”, film dopo film il “grande romanzo americano”. L’aneddoto lo racconta Scott, uno dei figli: “A quel punto, siamo entrati in sala missaggio. Come direbbe lui, bisogna tornare al lavoro e stare zitti. È una storia vera”.
Vera o no è puro stile Eastwood. Come puro stile Eastwood è il suo ultimo film, “Cry Macho”. Ora gli anni sono 91. Nel film Clint è una vecchia gloria del rodeo in disarmo, Mike Milo. Disarmo ma non domo, visto che un ricco farmer gli chiede (e lo convince) di andare in Messico, e riportare a casa il figlio Rafo, un adolescente che si è messo su una strada pericolosa e inquietante.
Un vecchio progetto. Se ne parla già nel 1988. Poi Eastwood si impegna in altri film, passa la bellezza di trent’anni. Nel suo romanzo l’autore, Nathan Richard Nash, immagina un uomo maturo ma aitante ed energico; non esattamente il Clint di oggi: in invidiabile forma, ma sempre novantunenne. Non per un caso, la frase cult: “Questa cosa del macho è sopravvalutata”.
C’è la mano di un abile, astuto, artigiano della telecamera che sa mettere comunque a frutto un “mestiere” ben accumulato e sedimentato, anche se forse “Cry Macho” non figurerà tra i migliori di Eastwood. Nel film comunque si può cogliere qualcosa dello spirito acre di Don Siegel e Sergio Leone. I due registi sono due riconosciuti maestri di Eastwood. Una prova lampante della consapevolezza di questo debito lo si trova in una fotografia pubblicata per “High Plains Drifter”. Nell’immagine Eastwood e Verna Bloom sono davanti a una tomba in un cimitero che ha una grande importanza nel film. Eastwood si appoggia a una pietra tombale con la sinistra, tiene il cappello sul cuore con la destra. Il nome sulla lapide è: Donald Siegel. Dietro a quella tomba, un’altra, si legge: S.Leone. Tipico esempio di umorismo alla Eastwood. Tutte e due le tombe si vedono nel film, ma non abbastanza a lungo per permettere di leggere le iscrizioni… L’episodio è raccontato nel libro Clint Eastwood (Signet Book, New American Library, New York 1974). Il libro è di Stuart Kaminsky, uno scrittore polacco-americano autore tra l’altro di libri “polizieschi ” deliziosi ambientati negli anni Quaranta; Kaminsky, vero topo di cineteca, non a caso viene scelto da Sergio Leone per supervisionare la sceneggiatura del suo capolavoro “C’era una volta in America”.

All’inizio Eastwood viene impiombato in clichè riduttivi: l’innominabile “Joe” di “Per un pugno di dollari”; il “monco” di “Per qualche dollaro in più”; ancora l’uomo senza nome de “Il buono, il brutto e il cattivo”; poi il poliziotto anarchico-conservatore della serie Dirty Harry. Una saga che tanti, frettolosamente, hanno liquidato come inno al “macho” fascista, autoritario, violento. Pochi si sono accorti che in “Dirty Harry”, Eastwood, alla fine getta via la stella di sceriffo; esattamente come, nel 1952, Gary Cooper in “High Noon” di Fred Zinnemann. Solo che allora in quel gesto si volle vedere una contestazione alla propaganda ottusamente anticomunista condotta dal senatore Joe McCarthy.
Sono ormai anni che Eastwood è una sorta di mito vivente. “Probabilmente”, dice, “perché mi sono capitati dei film che sono piaciuti al pubblico. Ma è solo fortuna. Il mio modo di vivere non mi ha fatto perdere il contatto con la gente. Io credo di sapere che cosa vuole l’uomo della strada, perché prima di fare l’attore ho fatto il manovale, il bagnino, il ragioniere… Perciò quando faccio un film penso sempre a ciò che può piacere alla gente”. Questo pensare al pubblico, secondo lui, è il massimo impegno che a un attore si può e si deve chiedere.
Tra i tanti film di questo grande artista che si possono citare (una battuta tipica dei produttori di Hollywood a corto di idee, è: “Se proprio tutto va male, possiamo sempre fare un film con Clint”), due che meritano di essere citati: “Two Mules for Sister Sara”, con una non meno brava Shirley McLaine; e “Paint Your Wagon”, assieme a Jean Seberg e Lee Marvin: western “decadenti”, si sfocia nell’auto-parodia; tuttavia forse meglio che in altri film Eastwood rivela le sue qualità, dimostra di essere l’ultimo vero divo dell’orizzonte western.
Non solo la “frontiera”, il West. Si prenda “In the Line of Fire”, un thriller diretto da Wolfgang Peterson. “Io faccio uno di questi agenti del servizio segreto che mettono la propria vita in prima linea per salvare il Presidente in caso di attentato. È un film molto ben fatto, di cui vado fiero, perché non è solo un action-movie, bensì mostra quello che sentono questi uomini straordinari, alcuni dei quali ho conosciuto, fa vedere come vivono. Il mio personaggio, per esempio, ancora porta le cicatrici dell’assassinio di Kennedy, della cui scorta faceva parte, senza successo, evidentemente. Per un agente del servizio segreto non esiste sconfitta o fallimento più doloroso. Ci siamo ispirati a Clint Hill, l’agente che tutti ricordiamo a Dallas, nelle celebri immagini televisive, correre e saltare sull’auto di Kennedy, ferito mortalmente. Hill concesse un’intervista a 60 minutes, in cui scoppiò in lacrime: un uomo distrutto. Piangeva istericamente, rimproverandosi che se avesse reagito con un secondo di anticipo si sarebbe preso la seconda pallottola, quella mortale, e avrebbe salvato Kennedy. È una cosa incredibile. Non tutti sanno che molti degli agenti addetti alla sicurezza di Kennedy non si sono più ripresi dal colpo subito. Avrebbero preferito dare la propria vita per salvare il Presidente, piuttosto che vivere una vita di cui hanno smarrito il senso…”.
Insomma, l’ennesimo personaggio segnato dalla vita: disincantato, una leggera punta di cinismo, un suo codice taciturno.
Dunque? Uno spirito troppo indipendente, né repubblicano né democratico: “Mi definisco un libertario che ama l’indipendenza al quale piace che ciascuno venga lasciato in pace. Non approvo che il Governo si immischi troppo negli affari della gente. Che ci posso fare, sono cresciuto negli anni della Depressione, e per me solo col lavoro, con l’iniziativa individuale, sempre che venga permessa, ci si può guadagnare un posto al sole…”.
Fin dai tempi di Mark Twain non c’è scrittore americano che non aspiri a scrivere il “Grande Romanzo Americano”. Molti hanno scritto qualcosa che si avvicina, ma siamo ancora in attesa. Eastwood dirige e interpreta film: prendeteli tutti (sono ormai tanti), metteteli in fila, guardateli con pazienza e attenzione. Il Grande Romanzo Americano lo ha scritto lui. Continua a scriverlo.
So long, Clint.