Un film tra la documentazione e la fiction, questo voleva essere “Ariaferma” di Leonardo di Costanzo, presentato ieri al Festival di Venezia, fuori concorso, con Toni Sevillo e Silvio Orlando. Il tutto si svolge in un carcere ottocentesco in un luogo imprecisato, molto fatiscente e in avanzato stato di degrado dove si trovano confinati 12 detenuti in attesa di essere tradotti in alte prigioni. In questa attesa le guardie carcerarie, gli ispettori e i detenuti si trovano a dover condividere il tempo da trascorrere, gli spazi fisici, il cibo e quindi riflessioni e sensazioni. Elementi che li rende parte di un’unica comunità, come rappresenta la scena della cena allargata a tutti.
Nel corso del film si sviluppa un crescendo di buoni propositi e gentilezze reciproche tra il personale atto al controllo e i detenuti, fino ad abbattere la barriera di confine fra il lecito e l’illecito. Si assottiglia cosi la distinzione tra chi ha commesso il crimine e chi invece può “andare a dormire con la coscienza a posto”, come sottolinea l’ispettore Gaetano (Toni Servillo).
Cosi all’“uomo pericoloso” Don Lagioia (Silvio Orlando), che incarna tutti gli stereotipi del capo mafioso/camorrista, vengono concessi privilegi per sé e per gli altri detenuti, e ogni suo desiderio viene esaudito. In tal modo si instaura un sistema in cui bontà richiama bontà e buoni propositi. Anzi il nostro capo mafioso/camorrista non solo diventa un buono, ma si erge anche a ruolo di saggio che riesce a convincere dei suoi buoni intenti l’ispettore ‘eroe’ Gaetano. “Voi non siete diversi da noi” dice il Lagioia all’Ispettore Gaetano, “siamo tutti dentro”.

L’intensità di questa comunanza viene intensificata nel momento in cui viene a mancare la luce. Come se la mancanza delle luce rappresenti l’assenza totale della distinzione tra i diversi ruoli, e come se nel buio le sovrastrutture sociali di distinzione tra colpevole e innocente possa essere cancellata.
Più che in una prigione sembra di trovarci in un ‘convento di monaci’, mutando le divise graduate in sai, dove l’intento è quello di comprende e assolvere. Addirittura ad un certo punto del film la colonna sonora è composta dalle note suonate su di un organo: comprendiamo, giustifichiamo e perdoniamo, perché in fondo anche nel peggiore essere umano un briciola di umanità esiste. La suggestione invocata. Il regista, insieme agli altri due sceneggiatori, Bruno Oliviero e Valia Santella (sic! Sei mani per scrivere questa sceneggiatura) hanno dimenticato di sottolineare che sebbene le barriere fisiche della diversità possono essere abbattute, sebbene possiamo ritrovarci a condividere una ‘cena nella lunga tavolata’, un ‘Giuda’, un criminale, un assassino ha il dovere morale e etico di pagare il proprio conto con la giustizia prima di ottenere la remissione dei peccati; se non altro per garantire una giustizia a coloro che il crimine lo hanno subito. E può bastare il crollo di una barriera fisica per accomunarci? Non esistono forse delle differenze di personalità che per essere modificate hanno bisogno di ben altro che la condivisione dello spazio e del tempo?

Si può obiettare che l’intento fosse quello di evidenziare come gli uomini siano fatti di molteplici aspetti e se trattati con rispetto si può ottenere il meglio dal profondo della loro anima. Oppure, come ha dichiarato il regista Di Costanzo, incarnando le vesti di un Cesare Beccaria di questo nuovo secolo, che “Questo è un film sull’assurdità del carcere”. Ma questa è una linea di pensiero che comporta percorsi pericolosi. È vero, la realtà carceraria andrebbe rivisitata, ma quando si tratta di un ‘Don’ capo mafioso/camorrista, anche se solo a livello di fiction, bisogna stare attenti ai possibili messaggi che si rischia di distribuire a livello sociale e soprattutto sugli effetti riverberanti nella popolazione giovanile.
Il tutto viene raccontato nel film in 117 lunghissimi minuti, con un ritmo lento. Inoltre si sviluppano numerosi luoghi comuni e stereotipi, come l’uso del rumore assordante provocato dal battere dei ferri sulle inferriate delle porte carcerarie come forma di protesta, o l’uso del bianco e nero per accentuare lo stato di degrado delle celle, un tentato suicidio del giovane fragile per redimersi dai peccati: frasi scontate attraversano molti dei dialoghi che interrompono i lunghi silenzi. Va però dato merito ai canti del coro sardo e alle loro canzoni popolari con cui il film apre le scene e che talvolta ritornano nel corso del film. Quelle voci sì che sono impressionanti ed originali.