In occasione della Maratona Dantesca “Dante minuto per minuto”, inizialmente prevista per il 15 luglio 2021, e che si terrà invece il 9 settembre prossimo nel Quartiere Giardino della Fondazione del teatro Comunale di Ferrara, dedicato alla memoria di Claudio Abbado, Moni Ovadia, che del teatro è il Direttore artistico, offre la sua personale visione di Dante. Su testi del filologo dantista Federico Sanguineti, con la regia di Moni Ovadia in collaborazione con Maria Cristina Osti e le voci recitanti dell’attrice Sara Alzetta e dello stesso Ovadia, il lavoro vede la partecipazione della Corte Ducale e dei contradaioli del Palio di Ferrara, mentre la veste musicale è curata da Ilaria Fantin alla voce e all’arciliuto, di Hersi Matmuja alla voce e tamburi a cornice, e di Giovanna Famulari al violoncello. Le celebrazioni per il 700° anniversario della morte del Sommo Poeta offrono una serie di interessanti spunti di riflessione sul significato della Divina Commedia e sul lascito dantesco all’umanità contemporanea.

“Questo spettacolo nasce da una suggestione che ho ricevuto da un saggio di Federico Sanguineti intitolato Le parolacce di Dante Alighieri, Tempesta Editore – spiega Moni Ovadia – in cui si riferisce che Petrarca era stato accusato da qualche malevolo di essere invidioso di Dante. Piccatissimo, pare che abbia risposto: “Io sarei geloso di quella lingua che sta in bocca a carrettieri e pellai?”. Per molto tempo, infatti, in Toscana c’era la tradizione di recitare Dante nelle aie da parte di contadini e fattori. Veniva recitato a braccio, con qualche errore, un po’ da tutti. Dante solitamente lo si studia a scuola, senza passione, eppure è l’immenso poeta che ci ha donato la lingua italiana, che poi si è evoluta fino ad arrivare alla lingua del Manzoni e oltre. Oggi invece parliamo una lingua assai brutta, una sorta di gergo aziendalista, come diceva il profetico Pasolini, piena di brutti neologismi e infarcita di anglicismi. Abbiamo paurosamente impoverito la nostra bella lingua, e sono rimasti in pochi a parlarla correttamente: segno di dipendenza coloniale e di degrado culturale. Un’altra suggestione per intraprendere questo lavoro l’ho ricevuta dai rappresentanti delle contrade del Palio di Ferrara, che io ho accolto proponendo loro di fare una sorta di recita collettiva, a canoni, o a gruppi, coinvolgendo le persone che potessero stare in piedi o muoversi nello spazio, affinché Dante torni ad essere un patrimonio comune e lo possano recitare tutti”.

Se la “Lectura dantis”, che ti ha visto impegnato il 29 Luglio a Persiceto, all’interno della stagione teatrale “TTTXTE” 2021, è dedicata al Canto XXVI dell’Inferno e alla figura di Ulisse, nella Maratona Dantesca reciti invece il Paradiso. Perché hai deciso di cantare Beatrice?
“Ancora una volta lo devo al mio grande amico Federico Sanguineti, che ha una particolare visione di Beatrice, peraltro comune a una certa corrente critica femminista. Beatrice, per queste studiose, non sarebbe un’allegoria, ma una donna in carne e ossa. Dante attribuisce cioè a una donna il ruolo di portatrice della Verità, del massimo grado della Conoscenza. Dante intuisce che il femminile è portatore di grandi valori, splendore, conoscenza, rivelazione. Abbiamo scelto di occuparci di Beatrice per questo: sono fermamente convinto che, se ci sarà un futuro nel pianeta, lo dovremo prioritariamente alle donne, a cui per millenni è stata impedita la messa in campo delle loro formidabili capacità, soprattutto quella di coniugare l’intelligenza con l’interiorità e l’intuizione, che hanno in misura maggiore rispetto al maschile”.

Credo che si debba riflettere sulla natura di quell’”amor che move il sole e l’altre stelle”. L’essere umano acquista identità solo quando coglie l’altro nella piena dignità della sua alterità. Dio stesso, nella Creazione, dà vita all’altro da sé. L’amore dunque come riconoscimento e ascolto dell’altro. E’ questa la lezione che dobbiamo trarre dal Paradiso?
“L’alterità è il leitmotiv di molti miei scritti e riflessioni. Credo che la mancata percezione dell’altro sia proprio il cortocircuito che impedisce all’umanità di vivere in una società di pace e nella giustizia sociale. L’uomo per Dio è l’alterità più estrema, e il paradigma dell’altro assoluto, che è il Divino, è l’ammaestramento per amare l’alterità. Non bisogna amare il Divino come certi baciapile, perché il Divino è rappresentato dall’altro che viene verso di te. Non a caso il Comandamento del Levitico 19:18 recita: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da intendersi: “il prossimo tuo è come te stesso”, col verbo essere introdotto dal filosofo Lévinas. Ognuno acquisisce la propria identità solo nella misura in cui accoglie l’altro nella pienezza e dignità della sua alterità, per quello che è, non che si vorrebbe che fosse. Se il Divino esiste, si manifesta in questo incontro di sé con l’altro. E il femminile è l’altro per il maschile, che invece di accoglierlo ha cercato di dominarlo, di calunniarlo, sfregiarlo, perseguitarlo, segregarlo, e non smette di farlo. Attraverso la figura di Beatrice noi cerchiamo di trarre un insegnamento diverso”.
Ancora a proposito di Dante, ricordo la tua collaborazione con il violinista Jamal Oussini, Presidente della Società Dante Alighieri, Comitato di Tangeri, e fautore della rete MeDA nel Mediterraneo, per lo spettacolo “Shir Del Essalem” (“Canti della Pace”). Mi parli di questo progetto?
“Ciò che lega le tre fedi monoteiste è proprio il concetto di Pace, Salam in arabo, Shalom in ebraico. Anche i Pontefici hanno fatto continuamente appello a questa parola. C’è stata l’Enciclica di Papa Giovanni XXIII, “Pacem in terris” del 1963 e l’Enciclica “Laudato sì” del 2015 di Papa Francesco, che avverte che se non faremo la pace con gli ultimi della terra, col pianeta che abitiamo, con la natura e gli animali che la popolano, non potremmo mai avere una vita serena. La pace è la casa della vita, la guerra è la dimora della morte, un concetto semplice di cui a volte le persone non sembrano rendersi conto. Ci sono anche delle vocazioni belliciste, come se non fosse chiaro che la guerra non porta altro che distruzione, morte, negazione stessa della vita. Il progetto con Jamal Oussini – grande amico, uomo profondo e semplice, completamente appassionato di ciò che fa – è stato proprio una celebrazione della Pace e dell’uguaglianza fra gli uomini, con riferimenti ai tre grandi testi monoteisti”.

Secondo te l’umanità potrà evolversi meglio sulla base di valori laici o di principi religiosi?
“Io credo che i valori fondamentali si ritrovino sia nelle fedi che nella cultura laica. La cultura laica è approdata ai principi della Rivoluzione francese, “liberté, egalité, fraternité”, laddove solidarietà è il termine laico per fratellanza. Le fedi monoteiste sono approdate alla libertà perché l’uomo è stato creato libero: questa è l’intuizione della Tōrāh, che poi viene ripresa dal Vangelo e dal Corano. Nelle religioni monoteiste, essendo il divino Padre e Madre di tutte le creature, tutti gli esseri sono “fratelli”. Non è dunque tanto importante che si tratti di principi religiosi o di grandi principi della laicità sanciti nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. L’importante è sapere che ciascuno di noi può esprimere modalità diverse per approdare allo stesso obiettivo. E gli obiettivi primari sono la pace, la fratellanza universale, la giustizia sociale. Le fedi possono dare lo stesso contributo del pensiero laica, basta che non imbocchino la strada luciferina del voler imporre, anche attraverso i governi o manu militari, le loro verità agli uomini. Nessuno può usare Dio come strumento di prevaricazione. Così come neanche i principi laici devono essere imposti. Anche l’ateismo di Stato può essere considerata una fede. Bisogna rispettare le fedi e le opinioni degli altri anche se non le condividiamo: questo è il modo per costruire società di pace e di giustizia sociale”.

Qual è secondo te, a 700 anni dalla sua morte, la consegna di Dante all’umanità contemporanea?
“Dante, anche se è uomo del tardo Medioevo, ha molteplici insegnamenti da offrire. Ci sono alcuni suoi versi che sono incisi come pietre della conoscenza, primo fra tutti quello messo in bocca ad Ulisse nel Canto XXXVI dell’Inferno. Dante spasima per incontrare Ulisse, “assai ten priego e ripriego, che ‘l priego vaglia mille”, e nonostante ciò lo colloca all’Inferno, non poteva fare diversamente. Due sono le sue grandi colpe: avere varcato i limiti imposti dal Divino e aver vinto la guerra di Troia con uno stratagemma, eppure Dante sa che Odisseo è molto importante. Innanzitutto perché usa il cervello, secondo perché è un viaggiatore. Dante prima viene sradicato da Firenze, e poi progressivamente diventa un esule; ed è proprio la condizione di esilio che permette anche a Odisseo di essere una figura straordinaria. Se, dopo aver sconfitto i troiani, fosse tornato a casa da Penelope e… “vissero felici e contenti”, chi avrebbe scritto un poema dedicato a lui? E invece Ulisse ripartirà. Ce lo fa intuire Omero, e il grande scrittore greco Nikos Kazanzatkis scrive una seconda Odissea, tradotta da Nicola Crocetti, a partire dal ritorno di Ulisse a Itaca fino alla sua morte. Tornando a Dante, credo che con quei versi dedicati a Odisseo abbia definito qual è il senso della vita: il viaggio. Per citare Kostantinos Kavafis, “Quando ti metti in viaggio per Itaca, augurati che il cammino sia lungo”. Un viaggio che deve essere di “virtute e canoscenza”, mentre invece l’umanità, soprattutto quella occidentale, ha percorso un viaggio di conquista, di scempio e di arricchimento”.