Pippo Franco è stato un vero rappresentante della commedia all’italiana, e dagli Anni Settanta, di fatto, anche un cabarettista tv apprezzato ed amato dal grande pubblico. Ha fatto parte, come tutti amano ricordare, della storica compagnia di varietà Il Bagaglino, che rimane un pezzo di storia del teatro e della tv del nostro Paese. Una carriera lunga e varia, la sua. Un successo su larga scala, con un affetto del pubblico che continua immutato, e di cui lui per primo si stupisce ancora oggi che in tv non si vede da tempo. Non possiamo parlare di tutto ma, in una telefonata piacevolissima tra noi intercorsa, Pippo si racconta in maniera generosa e sincera su svariati aspetti umani e professionali, regalandomi anche qualche riflessione sul nostro tempo storico.
Nasci a Roma il 2 settembre 1940, anche se hai origini irpine (padre) e marchigiane (madre). A Roma continui a vivere. Hai sempre vissuto qui? Quanto ami questa città? E come l’hai vista cambiare nel corso degli anni?
“La città di Roma, dove sono nato, io la amo ed ho un legame viscerale con lei, ma allo stesso tempo ho un medesimo forte legame con tutti gli altri posti che ho visitato in Italia, in molti dei quali ho vissuto. In Puglia, in Calabria… ho amici dappertutto. In verità ho più amici fuori che a Roma. Già da ragazzo, infatti, ho iniziato a viaggiare tanto. Sul cambiamento di Roma? Bhè, certo che li ho vissuti i cambiamenti di questa città, e di tutti i tipi, da quando ero piccolo: anche i bombardamenti, quando ci si rifugiava nelle cantine. Le realtà vanno contestualizzate, e non ho nostalgie di periodi particolari, perché li ho vissuti tutti. Non c’è pertanto un meglio o un peggio: c’è un andamento che Roma ha seguito in modo particolare essendo peraltro anche caput mundi. A Roma del resto c’e’ tutto, dal Governo al Vaticano”.
In quale definizione enciclopedica tra le seguenti (e tutte ti appartengono, essendo tu un artista davvero eclettico e capace di ricopre tutti questi ruoli) ti riconosci di più, e perché? Attore, cantante, comico, cabarettista, conduttore televisivo, sceneggiatore, commediografo, regista teatrale o umorista?
“In tutte, perché sono definizioni che fanno in egual modo parte del mio modo di essere, e non se ne puo’ togliere alcuna, sarebbe sbagliato. Sono energie che dialogano sinergicamente tra loro e che comportano l’identità di Pippo Franco”.
Hai una carriera tra Cinema, Teatro e Tv davvero ricca. Se avessi solo solo un nome da ricordare per tutto ciò che hai fatto, dicci rispettivamente il film, lo spettacolo teatrale ed il programma tv a cui tu sei più legato. Un nome solo.
“Purtroppo non ce l’ho, non posso mentire a me stesso. Anche le virgole, intendendo con questo le più piccole cose che ho fatto in carriera, hanno avuto per me la stessa importanza delle esperienze artistiche più famose. Ho amato tutto nello stesso modo, perché nel nostro mestiere, almeno dal mio punto di vista, esiste la visione consapevole di svolgere un lavoro, e tutto quello che ho fatto l’ho amato nello stesso modo, ed ho creduto sempre in tutte le mie scelte. Non c’è niente che non rifarei”.
Esordisci al cinema a soli vent’anni, nel 1960, con Appuntamento a Ischia, musicarello diretto da Mario Mattoli. Nel film, insieme con Aldo Perricone, Armando Mancini, Giancarlo Impiglia, Pino Pugliese e Cristiano Metz, che formano il complesso dei Pinguini, accompagni Mina nell’esecuzione dei brani Una zebra a pois, Il cielo in una stanza e La nonna Magdalena. Che ricordo hai di questo esordio così importante per un ragazzo così giovane?
“E’ un ricordo davvero particolare. Io stavo facendo l’esame di maturità al Liceo Artistico, e mi partiva il treno per andare ad Ischia proprio nel momento in cui avrei dovuto sostenere l’esame. Se avessi perso quel treno, sarei stato sostituito a livello artistico. Dissi pertanto al mio Professore di allora che avevo necessità di prendere un caffè, ma in realtà scelsi di prenderlo, quel treno….e dissi a me stesso che avrei rifatto l’esame ad Ottobre (e così feci successivamente, prendendo la maturità ). Da lì è partito tutto. Da quella scelta: il passo (cronologicamente) più importante, perché senza averla compiuta, la mia vita sarebbe stata probabilmente diversa”.
Nel corso della tua carriera, hai avuto l’opportunità di lavorare con grandi nomi. Anche con Luigi Magni in Nell’anno del Signore, e poi con Dino Risi ne Il giovane normale. Giganti del nostro Cinema. Oggi, quale regista italiano ti piace di più, e con quale di quelli con cui tu hai lavorato in carriera ti sei trovato più a tuo agio.
“Non saprei che dirti, non esiste più il Cinema di una volta, quello che citi tu e che ho conosciuto io. Prima la Nazione era poetica ed ha potuto produrre certi risultati. Tra tutti quelli con cui ho lavorato – e li ho amati tutti – la mia predilezione come regista va sicuramente a Luigi Magni, con cui ho stretto un legame molto forte, e poi a Billy Wilder: quello che, per intenderci, ha creato Marilyn Monroe. Con loro ho vissuto esperienze assolutamente uniche”.
Negli Anni Settanta e Ottanta prendi parte a numerosi film della commedia all’italiana e diventi un’icona del cinema di genere legato alla commedie erotiche all’italiana (in film di culto). Ti chiedo un tuo ricordo in particolare di Luciano Martino, a cui so che eri molto legato.
“Luciano Martino è stato il produttore che ha creduto in me per primo; aveva una particolarità: era anche autore, per cui anche lui un artista… però faceva il produttore. Nel primo film che abbiamo fatto insieme – protagonista Edvige Fenech, con la regia di Mariano Laurenti – la storia era boccaccesca; allora andava di moda quel genere, ed ancora oggi funziona. Luciano, senza dirmi niente, fece un colpo di mano: seppi come chiamò quel film (cambiando il nome originale e ritenendo di andare così incontro ai favori del pubblico) solo quando la pellicola uscì al cinema, e devo confessare che io ci rimasi molto male. Nacque “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda”. Aveva però ragione lui, perché quel film andò subito fortissimo. Nel cinema, se sbagli il titolo, sbagli tutta l’operazione di lancio. Evidentemente era il momento giusto per azzardare. E’ stato lungimirante ed ha avuto grandi intuizioni”.
La tua carriera televisiva risulta essere legata soprattutto agli spettacoli della compagnia Il Bagaglino. Arriviamo pertanto a parlare del tuo sodalizio con Pier Francesco Pingitore. A che anno ci riferiamo? Lo senti ancora ogni tanto al telefono?
“Sì, stiamo in contatto, anche se in verità è da tempo che io e Pier Francesco non ci sentiamo, ma questo non cambia nulla dei nostri rapporti. Gli inizi con lui risalgono ad una cantina a vicolo della Campanella a Roma. Parliamo di fine Anni 60, fai attenzione. Non mi riferisco ai 23 anni di programmi tv di successo, ma al primo cabaret romano. Eravamo in scena io, Pino Caruso e Gabriella Ferri, sostanzialmente; 130 persone circa di pubblico ed una esperienza che, se non ci fosse stata, non ci sarebbe stato il resto. Non sarebbe accaduto nulla successivamente, intendo. Nel 1975 ci siamo trasferiti al Salone Margherita, ma la cantina risale a molti anni prima, e con quel modo di fare cabaret (che allora neanche si chiamava così) ha avuto successo poi il programma televisivo”.
In teatro sei stato tra gli interpreti nel 1967 della commedia musicale di Garinei e Giovannini Viola, violino e viola d’amore con Enrico Maria Salerno e le Gemelle Kessler. Sei stato protagonista inoltre di commedie di grande successo di pubblico, come Belli si nasce, Il naso fuori casa ed È stato un piacere, tutte scritte e interpretate assieme a Giancarlo Magalli. Molteplici, quindi, gli spettacoli teatrali che ti hanno visto attore, autore e spesso anche regista. Il Teatro che importanza ha dal tuo punto di vista nella preparazione della carriera di un attore? Prepara ed insegna più del Cinema?
“Il Teatro ed il Cinema, ma anche la Tv, sono tre modi di essere diversi, non paragonabili. Tre situazioni. Puoi praticarne anche solo una, ma il teatro sicuramente le comprende tutte, perché ti dà l’idea corretta del rapporto con il pubblico, perché è in sostanza un rapporto in diretta, che ti dà modo di capire come stanno andando le cose. Di tutti i programmi televisivi importanti che ho fatto, ho sempre previsto una prova con il pubblico il giorno prima, in maniera tale da capire che cosa modificare, per far funzionare meglio il tutto, osservando le reazioni del pubblico. Non abbiamo mai sbagliato un colpo, presumo, per questa abitudine”.
Pippo Franco e la Musica: hai pubblicato i singoli “La puntura / Sono Pippo col naso”, “Prendi la fortuna per la coda / Aria di festa”, “Mandami una cartolina / Lezione di inglese” e, soprattutto, “Che fico! / Ma guarda un po’“, che è la sigla del Festival di Sanremo del 1982. Uno dei tuoi più importanti successi discografici è “Chì Chì Chì Cò Cò Cò”. E tante altre creature musicali. Come hai vissuto questa parentesi di successo nel campo della Musica?
“Anche il mio tragitto musicale è stato un percorso molto movimentato. In verità, quando già facevo il Liceo artistico, suonavo in contemporanea la sera nei locali notturni, e quindi facevo tardi, faticando ad andare a scuola nell’ultimo anno, quello della famosa maturità di cui già abbiamo parlato. Quello che mi ha caratterizzato nel mio percorso artistico, vario e tormentato, è sempre stata la caratteristica di essere un cantautore e mai un cantante. Nella vita ho del resto fatto tutte cose che mi somigliavano, e sempre espresso una creatività costante, continua… che ha attraversato il tempo e che ha interpretato il nostro tempo”.
Secondo te, la nostra cultura dimentica in fretta chi ha contribuito a crearla?
“Trattasi di un andamento normale, nel senso che tutti gli artisti – ed intendo tutti – hanno a che fare prima con un periodo di grande successo, fortemente scoppiettante, e poi questo successo lo vedono diminuire semplicemente perché arrivano gli altri. Per quanto mi riguarda, però, ho attraversato molte generazioni, ed ho ancora oggi una forte popolarità che stupisce me stesso per primo. Mi riconoscono tuttora. E i bambini di 3 anni ancora oggi cantano “Mi scappa la pipì”, per capirci”.
L ‘attuale crisi del mondo dello spettacolo dopo più di un anno di emergenza sanitaria. Come vedi il futuro?
“Il futuro? Non si vede da nessuna parte. Il problema di oggi, la disperazione di oggi – molto diffusa – sta proprio nel fatto che nessun futuro si vede o si intravede. Siamo diventati tutti quanti cinesi, le democrazie sembrano non esistere più, o non esistere più la costituzione. In sostanza, tutto quello che c’era prima, adesso non c’è più: sono cambiati proprio il mondo e la società. Esiste però il modo per affrontare questa nuova realtà. Trattasi della conoscenza di sé; della visione artistica della vita. L’artista – comunque – dentro di sé non solo sa come difendersi, ma conosce i valori dell’esistenza, che partono dal seguente concetto: l’opera d’arte più importante che tu possa immaginare è la tua vita. Considera pertanto la vita una performance artistica”.
Nel 2009 diventi testimonial ufficiale dei City Angels, un’associazione di volontariato: che rapporto hai con la solidarietà e con la fede? Parliamo di come ti sei avvicinato sempre più negli anni ad una sfera spirituale dell’esistenza.
“La solidarietà e la fede sono sinomini, e dare è la cosa più importante che possa capitare. Con il dare non si intendono solo gli aspetti materiali, ma anche cercare di far capire agli altri quale sia il senso autentico della nostra esistenza. Benedetto XVI ha pronunciato delle parole che esprimono un concetto dove mi identifico totalmente: la vita è la conoscenza della tristezza, la conoscenza dell’amore e la conoscenza del divino”.
Nel 2016, dopo un periodo di lontananza dal grande schermo durato più di due decenni, reciti al cinema nella commedia di Fabio De Luigi Tiramisù, con Vittoria Puccini e Angelo Duro, in cui interpreti un medico. Negli ultimi anni, quale è stato il tuo impegno in ambito professionale (in senso lato) che ti ha assorbito di più? Forse la scrittura, di cui finora non abbiamo ancora parlato?
“Sì. Anche la scrittura. L’impegno maggiore è curare la mia vita. La vita comporta una continua creatività. Tuttora scrivo, faccio conferenze…è diventato per me tutto molto più articolato, se vogliamo, rispetto ad una volta. Più specifico. Incontro sempre tante persone, e ogni tanto partecipo a qualche programma tv, ma le attività di adesso sono molto più precisate, motivate, indirizzate a tutte le circostanze che affronto, nella speranza di essere utile con quella che ritengo sia la mia maturità”.
La Voce di New York, che ospita la nostra chiacchierata, è una testata ovviamente estera. Ricordiamo che sei apparso in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (1972) di Billy Wilder, a fianco di Jack Lemmon e Juliet Mills. Che rapporto hai avuto con l’estero e l’America in particolare?
“In America sono ovviamente stato; ha ispirato tutti noi, è quella parte di mondo dalla quale non possiamo in qualche modo prescindere. Se non esistesse, non avremmo tanti punti di riferimento. Ho girato nella mia vita quanto basta per capire che in ogni caso l’Italia è il Paese che mi appartiene culturalmente di più, anche se vivo dell’ascolto di tutte quante le altre culture: non mi piace vivere in un solo mondo, bensì amo attraversarli tutti”.