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September 12, 2020
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Il modello della Mostra del cinema di Venezia batte il virus e premia il più bel film

Il festival-laboratorio è stato un successo: il primo gran evento al tempo della pandemia ha dimostrato che la convivenza con il maledetto covid-19 è possibile

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Time: 5 mins read

«Ora lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro»: è il verso conclusivo della poesia 9 Marzo, con cui la poetessa Mariangela Gualtieri ha aperto una delle più emozionanti cerimonie di chiusura della storia della Mostra del cinema di Venezia. Emozionante non per i premi assegnati, per la retorica delle parole di Anna Foglietta, per i bellissimi versi di Gualtieri o di Adesso di Diodato, che ha preceduto l’ingresso sul palco della sala grande della madrina della Mostra. No, è stato emozionante pensare che è successo davvero, che gli organizzatori della 77. della Mostra del cinema di Venezia sono riusciti nel miracolo di realizzare in presenza il primo grande evento dell’era Covid, dell’epoca del distanziamento sociale. E con loro, ce l’abbiamo fatta tutti noi che abbiamo partecipato: ha vinto il senso di comunità dei cinefili accorsi al Lido, collante e carburante di questa rassegna, che ha fatto sembrare tutto semplice, ordinato, sicuro. Dopo mesi si sono riviste facce (mascherate) note e si è tornati in sala (a distanza di sicurezza) a fare maratone di film, e tutto ciò è stato talmente bello da rendere sopportabile qualsiasi disagio legato ai protocolli di sicurezza.

La grande curiosità, infatti, ancora prima che per i film, era rivolta quest’anno al meccanismo organizzativo messo davanti all’impegnativa “prova del Covid”: come avrebbe retto, ci si chiedeva, il carrozzone di uno dei più importanti festival cinematografici al mondo sotto il peso del distanziamento sociale, degli accreditati mascherati, dei litri di gel igienizzante? Questo festival è stato un imponente laboratorio di convivenza con il Coronavirus, e la sensazione è stata quella di trovarsi dentro a una sorta di bolla di civiltà, come se si fosse in un universo altro rispetto a quello dei subumani no brain che tra mamme incazzate, fasci, terrapiattisti e pappalardi hanno affollato le piazze solo qualche giorno fa gridando al complotto.

E i film? Al di là dei premi, c’è da dire che di fondo è stata operata una scelta diversa dagli anni passati: senza i grandi autori e i blockbuster abitualmente in transito dal Lido in cerca di un trampolino per l’Oscar, e che adesso temporeggiano per vedere che ne sarà di noi, di Cannes, del cinema e delle sale, spazio a piccoli film, a nomi meno noti, a produzioni indipendenti, con poco glamour e tanto cinema italiano.

E allora ripercorriamone i momenti memorabili, inventariando i premi delle sezioni principali, partendo da Orizzonti, che si è rivelata a dire il vero la sezione forse più deludente del palinsesto della Mostra, in cui un piccolo riconoscimento è andato anche al talento di Pietro Castellitto, che si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura per I predatori, il suo esordio dietro la macchina da presa. I premi più importanti della sezione sono invece andati a Lav Diaz, già Leone d’oro nel 2017, che si è aggiudicato il premio per la miglior regia per il cupo Lahi, Hayop, forse il film più pessimista e strutturalmente convenzionale del regista filippino, e ad Ahmad Bahrami, iraniano allievo di Abbas Kiarostami, il cui The Wasteland, film di denuncia sulla condizione della classe operaia persiana che non ci ha convinto del tutto, si è aggiudicato il premio per come miglior film.

Veniamo al concorso. Il premio speciale della giuria è andato a Dear Comrades, di Andrei Konchalovski. Ambientato nel  1962, nella cittadina di Novocherkassk, nell’Unione Sovietica post-staliniana, racconta, in un impeccabile bianco e nero, la storia vera e a lungo tenuta nascosta di uno sciopero indetto dagli operai della fabbrica di locomotive locale destinato a finire in tragedia. Film tra i più belli del concorso.

Il premio per la miglior sceneggiatura è andato all’indiano The Disciple, di Chaitanya Tamhane, allievo di Alfonso Cuaron, racconto di formazione ambientato nel mondo della musica classica dell’India settentrionale, quella della tradizione Alwar.

Favino con la Coppa Volpi durante la conferenza stampa

La Coppa Volpi per il miglior attore ha premiato Pierfrancesco Favino, sicuramente il “migliore in campo” nel discutibilissimo Padrenostro di Claudio Noce, di cui ho scritto nei giorni scorsi. Le parti maschili interessanti quest’anno non erano particolarmente numerose, ma a mio modo di vedere il Casey Affleck di The World to Come di Mona Fastvold o lo Shia LaBeuf di Pieces of a Woman, benché in ruoli comprimari, avrebbero meritato di più.

Proprio la protagonista di Pieces of a Woman, la bravissima Vanessa Kirby, ha ricevuto con pieno merito la coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Il film – diretto dall’ungherese Kornél Mundruczó, talentuoso regista che nel 2014 ha vinto il “concorsino” di Cannes Un Certain Regard con White God – racconta brevi frammenti della vita di Martha, una donna che, durante un parto in casa, vede morire tra le proprie braccia il figlio appena nato, ed esplora in modo molto efficace il suo dolore, profondo e disgregante, che la porta prima a rompere con il compagno (Shia LaBeuf) e poi a mettere in discussione se stessa e gran parte delle sue relazioni.

Il Leone d’argento per la miglior regia va a premiare Kyoshi Kurosawa, che abbiamo spesso ammirato per i suoi horror magistrali, e che si è cimentato quest’anno con un melodramma in costume, Life of a Spy, un po’ manierato ma suggestivo e formalmente impeccabile.

Nuevo Orden di Michel Franco, uno dei film più convincenti di questa mostra, è salito sul secondo gradino del podio, portandosi a casa il Premio speciale della giuria: un thriller a sfondo sociale ambientato in un Messico distopico, non troppo diverso – come ha ricordato lo stesso regista ritirando il premio – dagli scenari reali che la pandemia ha creato in Centro e Sud America.

E infine il Leone d’oro, scelta giusta, logica e scontata, va a Nomadland, di gran lunga il film più bello dell’intera selezione, firmato dalla talentuosissima Chloé Zhao (autrice qualche anno fa del bellissimo The Rider) e interpretato da una strepitosa Frances McDormand, racconto on the road dell’emarginazione, sociale ed emotiva, in cui sono sprofondati numerosi americani dopo la crisi del 2008, che si snoda tra spazi infiniti e scenari post apocalittici.

Giù il sipario e appuntamento al 2021, 1-11 Settembre. Impossibile al momento immaginare che tipo di mostra sarà quella del prossimo anno, intanto giusto valorizzare il grande successo della Biennale e del direttore Alberto Barbera, fautori di un evento ammirato da tutto il mondo.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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